
Napoli, 3 settembre 1837
Scrivo queste righe per lasciare memoria di ciò che ho visto, affinché nessuno osi più negare la colpa degli uomini e la giustizia di Dio. Io, Filippo Santangelo, speziale e custode della farmacia degli Incurabili, ho camminato stamattina tra i cadaveri che la piena ha restituito alla città. Il colera è una bestia invisibile che sta divorando il Regno da mesi. Ogni giorno, cento, duecento corpi si aggiungono ai mucchi nelle piazze, lungo il porto, nei vicoli angusti dove la peste ha già lasciato il suo marchio nei secoli passati. La gente cade per strada, vomitando acqua nera, contorcendosi in spasmi mentre le budella si svuotano come sacchi squarciati. L’aria puzza di calce viva e disperazione. Le campane delle chiese suonano a ogni ora, ma non per i fedeli: scandiscono il passo dei cortei della morte. I nobili e i possidenti sono fuggiti nei loro palazzi di campagna, lasciando la plebe a morire tra i topi e le acque marce che risalgono dalle fogne. I medici parlano di umori corrotti, di miasmi e impurità, ma nessuno sa fermare il contagio. Solo i necrofori prosperano, con la loro spietata efficienza: caricano i defunti sulle loro carrette e li portano via, promettendo sepolture dignitose in cambio di poche monete. Ma a Napoli anche la morte ha il suo prezzo, e spesso chi paga per una tomba finisce a marcire in una fossa anonima. O peggio. Stamane ho visto ammassati nella strada dei Vergini, i corpi rigonfi d’acqua, gli occhi vuoti rivolti al cielo plumbeo. Tra loro, gli stessi schiattamorti che servivano il prete della chiesa di Sant’ Aspreno ai crociferi. Il medesimo infame trio che fino a due giorni fa si arricchiva col dolore. Ma la Santissima Trinità, stavolta, ha presentato il conto.
La notte del primo settembre, sotto un cielo carico di elettricità che fa presagire l’arrivo di un temporale, una carretta malconcia sosta all’ombra della chiesa dei Crociferi. Due figure nerborute, abbigliate con il saio bruno e raffazzonato dei monatti, caricano sul cassone pesanti involti sporchi di terriccio, sorvegliati dal prete sulle scale del sagrato e da un somaro scheletrico attaccato a cassetta del trabiccolo. Il parroco, don Cristoforo, li osserva con un ghigno sornione. Ha fatto fortuna vendendo tombe che non esistono. I parenti degli sfortunati colpiti dal morbo pagano per farli seppellire in terra consacrata, ma pochi giorni dopo la sepoltura i corpi vengono esumati di nascosto e caricati sulla carretta dagli schiattamorti, per essere sversati, come spazzatura, nelle cave delle Fontanelle.
“Meglio lì che in pasto ai cani“, pensa il prete. E intanto continuano ad intascare denari, lui e i suoi biechi compici, vendendo più volte lo stesso piccolo spazio sotto il pavimento della sua chiesa.
— Muviteve c‘a nuttata è ‘nu muorzo! — La voce aspra del prete sovrasta il frastuono del vento — Qua c’è da fare almeno un altro carico prima ca’ jesce ‘o sole… ‘O tiempo è denaro!
A ‘Ntonio, il più giovane dei becchini, non piace il modo di fare di quella mezza sottana, vorrebbe dargli una bella lezione magari mettendo mano al coltello, ma l’anziano ex galeotto Ninotto ne placa l’ardore per non rinunciare al “buon traffico”; mentre afferra la cavezza del mulo avviandosi dice untuoso: — All’ubberienza zì prè, dateci ‘o canzo…
Sono malacarne, uomini senza Dio che si sono abituati ai miasmi e alla putrefazione per trarne un facile guadagno. Quando sarà finita, troveranno il modo di strunziare quel fetente di don Cristoforo per sottrargli quanto ha accumulato rubando.
Il mulo risale per la strada dei Vergini in direzione del non molto distante costone tufaceo, i tuoni avvertono che la pioggia è ormai imminente.
‘Ntonio, seduto sulla sponda, osserva il triste carico e indifferente canta a mezza voce:
— Me voglio fa’ ‘na casa ‘miez’ ‘o mare
fravecata de penne de pavune,
tralla la le la tralla la la la.
Quella notte, tra i cadaveri ammassati sulla carretta, c’è anche lei; una giovane e bella donna dalla pelle ancora chiara sotto il velo funebre. Ha le mani legate sul ventre perché è morta di parto, il figlio le è stato strappato dalle braccia dallo stesso don Cristoforo e gettato nella fossa comune della Chiesa dei Crociferi. Il marito, folle dal dolore, si era svenato per seppellire moglie e figlio in terra consacrata, con la speranza che i loro spiriti potessero trovare pace. Ma la pace non è concessa agli ingannati.
— D’oro e d’argiento li scaline fare e de prete preziuse li barcune
tralla la le la tralla la la la. Quanno Nannella mia se va ‘affacciare
ognuno dice mò sponta lu sole tralla la le la tralla la la la.
Ninotto, infastidito dal comportamento del compagno si mette ad urlare: — Guagliò invece ‘e fa serenate damme na mano a vuttà ‘a rota cà nc’è simmo!
Quando la carretta arriva davanti al maestoso ingresso delle cave delle Fontanelle, la pioggia comincia a battere sul tufo con gocce grosse come lacrime. I monatti gettano i corpi come sacchi di farina, insensibili del fetore. Ma quando sollevano la giovane madre, un brivido gelido gli attraversa la schiena. Il volto della morta è roseo, la bocca socchiusa, gli occhi semiaperti, sembra che voglia parlare.
-‘Ntò votta ‘e mane! — ringhia Ninotto, infastidito dalla paura che stranamente gli attanaglia le viscere.
La gettano sull’ammasso di ossa e carne e per un attimo il vento tace. Poi, un suono. Un lamento sottile, come il pianto di un neonato. Gli schiattamorti si guardano attorno. Nessun bambino. Nessun vivo. Solo ossa di cadaveri e vento. La donna si mosse, non è uno spasmo della decomposizione, non è il gioco d’ombre delle fiaccole. Si alza lentamente, le mani tremanti cercano il ventre.
— Addò sta ‘o nennillo?
Gli schiattamorti rimangono immobili mentre il lamento si fa più forte. Ora sembra rimbombare sotto l’ampia volta della cava, mescolato al frastuono del temporale che incalza. Altre ossa cominciano a muoversi. Le mani scheletriche escono dal fango, i crani si sollevano. Gli occhi vuoti delle anime truffate si accendono di un bagliore gelido e feroce. ‘Ntonio e Ninotto urlano cercando di fuggire, ma il terreno fangoso crolla sotto i loro piedi. L’acqua, che per ore ha scavato nelle viscere della collina, irrompe come una bestia furiosa dal finestrone principale. La lava dei Vergini si gonfia e li trascina via. Gli uomini cercano di gridare, ma il fango gli riempie la bocca. ‘Ntonio scalciando e affogando il compagno più anziano riesce ad aggrapparsi a un pezzo di legno, ma sente mani bagnate stringersi attorno al suo collo. La fanciulla lo fissa, le labbra tirate in un sorriso livido.
— Addò sta ‘o nennillo!?
L’uomo scompare nel turbine violento di acqua e mota, la gola serrata da dita di gelo.
La corrente spinse i corpi per i vicoli, li trascinò lungo i Vergini e li sputò davanti alla chiesa dei Crociferi. E così li abbiamo trovati stamattina, gonfi, immobili, le facce pietrificate nel terrore. Il prete don Cristoforo era lì con loro. L’impeto della lava d’acqua l’aveva colpito all’altare della sua chiesa, la testa piegata come in una macabra genuflessione. Tra i corpi, una fanciulla. Inspiegabilmente lei non era gonfia. La sua pelle era ancora tesa, bianca e rosa come il giorno in cui era stata sepolta. Le sue mani stringevano ancora qualcosa. Un fagotto avvolto in un sudario, piccolo, immobile. Un neonato. Forse un segno. O forse, un figlio che la morte le aveva restituito dimostrando più pietà degli uomini.