Che fine ha fatto il popolo?

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Testo della Costituzione della Repubblica italiana

“La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Così recita il primo articolo della nostra Carta, ma mai esso è stato disatteso come lo è oggi, e non solo nel nostro Paese ma anche in molti altri a regime repubblicano e democratico. Popolo è la parola più pregnante per designare il soggetto collettivo che è il protagonista della Costituzione. Al popolo appartiene la sovranità, come abbiamo già visto, e perciò nel suo nome viene amministrata la giustizia (art. 101). Ad esso compete l’iniziativa nella formazione delle leggi (art. 71), il potere di abrogarle mediante referendum (art. 75) e la facoltà di rivolgere petizioni alle Camere (art. 50). L’insieme dei cittadini può anche essere designato come società, al cui «progresso materiale o spirituale» ognuno deve concorrere «secondo le proprie possibilità e la propria scelta» (art. 4); o come collettività (come nell’art. 32 sul diritto alla salute).

Quanti di noi cittadini sanno quali sono i poteri loro riconosciuti della Costituzione e li esercitano nell’interesse del bene comune? In realtà molto pochi e, essendo pochi, la loro voce è flebile e viene scarsamente ascoltata. Quanti alti lai si levano ogni giorno in ogni parte del nostro Paese contro quelle che giudichiamo ingiustizie e prevaricazioni contro le quali il popolo si sente impotente, perché le decisioni, che pure lo riguardano molto da vicino, sono prese in luoghi ad esso inaccessibili e da persone con le quali non gli è nemmeno permesso parlare. Per cui possiamo spingerci ad affermare che la parola popolo ha ormai quasi del tutto perduto di significato, tranne quando, in alcune occasioni, esso viene chiamato a raccolta nelle piazze per manifestare con la presenza anche la sua esistenza. Ma non dovrebbe essere così. Se, per esempio, facciamo riferimento all’argomento che da un certo tempo è all’ordine del giorno, cioè le guerre che imperversano in Europa e in Medio Oriente, e alle infinite diatribe, sia a livello nazionale che europeo, sulla scelta fra il dotare di armamenti più potenti i singoli stati dell’Unione oppure tendere alla costituzione di un esercito comune, di un armamento comune, di una politica comune, quanti di noi cittadini abbiamo voce in capitolo? Nessuno. Possiamo semplicemente seguire il dibattito sui media e poi prendere atto delle decisioni che vengono prese sulle nostre teste, senza che noi possiamo interferire in alcun modo. E lo stesso discorso vale per la gestione delle risorse dello Stato, sulle quali noi, il popolo, i cittadini, non abbiamo la minima facoltà di intervento se non con le lamentele che lasciano il tempo che trovano.

Il nesso costituzionale sovranità popolare-beni pubblici e comuni diritti dei cittadini legittima l’affermazione di Calamandrei, che «in una Repubblica fondata sul lavoro, è necessario identificare popolo e Stato», i cittadini con lo Stato-comunità. Lo Stato siamo noi, se nella Costituzione sapremo riconoscere un manifesto per il bene comune. Un manifesto già pronto: se vi stiamo ricorrendo così poco è perché ne stiamo dimenticando le origini, la forza e lo statuto supremo al vertice dell’ordinamento. Perché ci siamo rassegnati a pratiche di governo che ignorano i diritti costituzionali dei cittadini, sottoponendoli al dispotismo dei mercati; usano i beni comuni e la proprietà pubblica asservendoli al profitto privato a scapito del bene pubblico; giustificano questa abdicazione con la pretesa priorità delle norme europee. Davanti a tanto stravolgimento dei principi, dobbiamo fare della Costituzione il manifesto dei nostri diritti. Anziché puntare su un’Europa fondata solo sulla contabilità dei mercati, dobbiamo portarvi la ricchissima dote ideale, giuridica e culturale dell’alto sistema di principi e di diritti, che è la nostra Costituzione. Dobbiamo chiederci con urgenza quali mezzi abbiamo noi cittadini di richiamare chi ci governa al rispetto della Costituzione e del bene comune. Dobbiamo esplorare se e come sia praticabile un diritto di resistenza attiva, un’azione popolare per la Costituzione e per il bene comune.

La realtà è quindi un’altra rispetto a quella descritta nelle pagine della Costituzione. Siamo costretti a riconoscere, dunque, che il popolo sovrano è un popolo innanzitutto frustrato. E questo perché il nostro sistema elettorale, all’atto pratico, lo esautora da ogni potere, facendogli credere che con il rito delle elezioni esso sia in realtà colui che decide, ma non è così. I candidati vengono eletti secondo l’ordine in cui figurano in liste bloccate, interamente determinate dai partiti; gli elettori non possono esprimere preferenze, con la conseguenza che deputati e senatori senza vera base elettorale (e talvolta senza onore) cambiano bandiera al bisogno. Di conseguenza vi è una evidente contraddizione con l’affermazione, più volte menzionata di Lincoln, «di un governo del popolo, dal popolo. Per il popolo». In realtà ci sentiamo di condividere l’opinione di Sartori che «democrazia è un nome enfatico riferito a qualcosa che non c’è». Ciò nonostante, sarà sempre utile ricordare che non vi è alternativa credibile alla democrazia, salvo quella di cadere provvisoriamente nell’anarchia, per poi finire nelle braccia di un regime autoritario o dittatoriale. I partiti politici, la cui proliferazione nel nostro Paese è causa di grande confusione, date le giravolte e le alleanze che si fanno e si disfano continuamente, fino ad anni recenti tasselli fondamentali del funzionamento delle democrazie, sono stati e restano macchine per promuovere ottimismo, speranze e illusioni per arrivare al potere, non temendo l’uso smisurato dell’utopia, né le promesse elettorali impossibili da mantenere o irrealistiche, né la mediazione a favore di benefici elettorali a breve termine a danno di attività più complesse i cui effetti si fanno sentire solo nel lungo periodo. La demagogia non è un attributo delle sole società democratiche, ma essa vi prospera in quanto i meccanismi della democrazia consentono di farvi ricorso facilmente.

Parlando di promesse a breve termine, non può non venirci in mente ciò che sta accadendo rispetto ai continui proclami di successi dell’attuale Governo che, nonostante tutto, gode di un forte sostegno dalla maggior parte dei cittadini. Ma questi ultimi sanno alcune cose? L’attuale crescita è al punto zero, la produzione industriale è crollata del 3,5% nel 2024 e mostra il segno meno da 23 mesi consecutivi. Il fatturato dell’industria è sceso di 46 miliardi. La Cassa Integrazione è cresciuta del 30%, a 426,5 milioni di ore. I posti a rischio per le aziende in crisi hanno raggiunto quota 126.447 a gennaio. La pressione fiscale è salita al 42,6%. Le bollette del gas esplodono, più 34,8% nell’ultimo anno. Però ci sono settori in cui siamo veramente al top: svettiamo al primo posto nella Ue per numero di poveri assoluti e per costo dell’energia delle imprese, mentre siamo fanalino di coda per potere d’acquisto dei salari, per tasso di occupazione femminile e per numero di giovani che non studiano e non lavorano. In compenso abbiamo una Premier che vanta un successo dietro l’altro, che sogna il ruolo di mediatrice fra le grandi potenze invece di preoccuparsi della nostra reietta Italia che annaspa e il suo popolo con essa.

Questo passa il convento oggi. E questo, paradossalmente, giustifica anche i sondaggi pietrificati grosso modo ai risultati delle ultime elezioni politiche. L’Italia galleggia come può sui suoi mali atavici, gli italiani annaspano senza alternative. Come ricorda sempre Sergio Mattarella, non senza una punta di amarezza: si fa il pane con la farina che c’è. E di farina oggi ce n’è poca e di qualità molto scarsa. Per questo Meloni festeggia il suo tristanzuolo “midterm” rifugiandosi nel premierato. Deve confonderci, visto che non ci può convincere. Ma è la prima a sapere che le riforme istituzionali sono come le litterae degli antichi romani: non dant panem. In un’intervista al Financial Times ha assicurato: «Non starò qui a scaldare la sedia, ma per lasciare una Nazione migliore di come l’ho trovata». Nobile proposito, ma finora miseramente fallito. Chi, in queste ultime settimane, ha letto ciò che sta accadendo nelle strutture sanitarie pubbliche della Regione Sicilia non può che rabbrividire, apprendendo che i risultati di analisi, anche di estrema importanza, devono attendere anche un anno, mentre nel frattempo il paziente muore, e che le prenotazioni di una visita devono attendere mesi e mesi a meno che non si sia disposti a sganciare una tangente al direttore dell’ospedale, notizia questa freschissima. C’è gente che è morta in attesa del risultato di un esame oncologico perché le metastasi non sono abituate ad attendere i tempi biblici della nostra sanità e vanno avanti per la loro strada.

Il risultato di tutto questo è la crescita consequenziale dei movimenti populisti, come quello di Salvini, che continua a battersi strenuamente per un’opera grandiosa e totalmente inutile e pericolosa: il Ponte sullo stretto. Forse nella sua specifica inconsapevolezza ha dimenticato il terremoto di Messina e di Reggio Calabria, zona altamente sismica, dove i due terminali del ponte devono essere collocati, proprio in quelle zone in cui può — senza avvertire prima Salvini — esplodere un terremoto come quello in Myanmar, terremoto con decine di migliaia di morti. Ma il successo dei movimenti populisti è in parte dovuto all’adozione di un sistema semplice ed elementare, fondato più sulle emozioni che sul ragionamento complesso. La politica ridotta a slogan si segue con più facilità delle complicazioni di un pensiero sofisticato. Fare previsioni sul futuro oggi è estremamente difficile, dato il “terremoto” che sta scuotendo così tanti paesi della terra, anche quelli di antica democrazia come gli Stati Uniti, e anche i paesi europei, divisi più che mai e da parte dei quali non si vede nessun cammino iniziale verso il progetto di cui abbiamo parlato più volte, riconducibile a Ventotene. Non ci resta che attendere e sperare nello “stellone” italiano!

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