Carmagnola

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Altiero Spinelli (Fonte: Wikipedia)

“S’ode a destra uno squillo di tromba, a sinistra risponde uno squillo: d’ambo i lati il calpesto rimbomba da cavalli e di fanti il terren”.

Questi versi appartengono alla tragedia manzoniana Il conte di Carmagnola, che descrive la sanguinosa battaglia di Maclodio nel 1427. Che fossimo nel XV secolo oppure nel XXI nulla è cambiato; le guerre e i conseguenti lutti, stragi e rovine hanno sempre caratterizzato lo svolgersi delle vicende umane, uomini che non hanno quasi mai saputo risolvere le loro controversie sedendosi al tavolo della diplomazia ed ottenere risultati accettabili per entrambe le parti senza la necessità dello spargimento di sangue. Che la guerra faccia parte della natura umana, lo si è letto e scritto più volte, traendone le conseguenze nell’impossibilità di porvi fine e che esse debbano accompagnarci fino alla fine dei tempi. Anzi, la guerra o la sopraffazione e lo sterminio del “nemico” sono un tratto caratteristico della vita, dai livelli più bassi, quelli delle forme di vita microscopiche, a quelli più elevati come quello della razza umana. Sì, perché solo gli esseri umani hanno il dono della parola e a volte, come dice il proverbio, “ne uccide più la lingua che la spada”, il che vuol dire che la lingua, il dialogo, il ragionamento possono, a volte, essere più efficaci del ricorso alle armi che è l’ultima e disperata ratio.

Ecco perché ultimamente si sta parlando come mai prima del Manifesto di Ventotene, concepito e redatto proprio mentre imperversava una guerra immane che vedeva le nazioni, europee e non, scagliarsi, l’una contro l’altra armate, con un solo obiettivo: distruggere l’avversario. Questo breve scritto, di cui abbiamo tanto parlato e di cui si continua a parlar male da parte della destra fascistoide al governo, che ne ha estrapolato alcuni passaggi senza tenere conto del contesto, indica invece la via kantiana alla “pace perpetua”, per lo meno nel continente dalla civiltà più antica e prestigiosa: l’Europa, la nostra vera madre patria, della quale dovremmo tutti sentirci figli a pieno titolo perché la sua storia grava sulle nostre spalle e non su quelle degli americani o dei russi o di chiunque altro. Ecco perché il titolo del Manifesto contiene anche le parole “per un’Europa libera e unita”. E fu proprio perché esso fu redatto mentre gli eserciti dell’Asse marciavano compatti invadendo una nazione dopo l’altra, seminando lutti e rovine, che nella mente illuminata di tre nostri compatrioti esso poté germogliare e nascere. Intuizione fortemente avveniristica, anche se a quel tempo poté sembrare soltanto un’utopia.

Secondo gli estensori del Manifesto, “Il problema che in primo luogo va risolto e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell’Europa in stati nazionali sovrani”, aggiungendo poi che “Gli spiriti sono già ora molto meglio disposti che in passato ad un riorganizzazione federale dell’Europa”. L’idea di fondo di Spinelli è che solo un’organizzazione europea di tipo federale avrebbe potuto raggiungere il duplice scopo di evitare una nuova catastrofe e di dare all’Europa un peso economico e politico tale da renderla, a guerra finita, protagonista nel quadro internazionale. Ed ecco perché sarebbe necessario che la comunità europea riprendesse coscienza del suo ruolo superando disaffezione e sfiducia nei confronti di un progetto oggi sentito come estraneo. La sovranità assoluta degli Stati nazionali ha portato alla volontà di domino di ciascuno di essi, poiché ciascuno si sente minacciato dalla potenza degli altri e considera suo «spazio vitale» territori sempre più vasti, che gli permettano di muoversi liberamente e di assicurarsi i mezzi di esistenza senza dipendere da alcuno. Sarà possibile? Molti ritengono di sì. Ad aiutare l’idea di un’Europa federale potrebbe essere proprio la brutalità, la rozzezza, degli attacchi che i suoi nemici le muovono sia dall’interno dei singoli Stati sia dall’esterno. Non sarà facile, ma non è nemmeno impossibile; accade talvolta che da un male si riesca a ricavare inaspettatamente un bene. E malo bonum, dicevano i padri.

Ma perché l’Europa possa diventare ciò che sognavano i tre confinati di Ventotene, essa deve far posto all’idea ormai superata degli stati nazionali con i loro eserciti che, allo stato attuale, costituisce il progetto della von der Leyen, ma che si munisca invece di un potente esercito comunitario di difesa tale da incutere rispetto e timore in chiunque pensasse di poter attaccare questo nuovo organismo, solido, unito nelle decisioni politiche e potentemente armato. Invece di scontrarsi sull’Europa del passato, governo e opposizione italiani, divisi fra loro e divisi all’interno, dovrebbero discutere seriamente il ruolo dell’Italia nell’Europa del presente e del futuro. Come scrive Marta Dassù su la Repubblica, «Non è un ruolo scontato, che permetta di rifugiarsi nella retorica del vecchio paese fondatore (opposizione) o di pensarsi come un ponte politico (governo) fra un’America che ha cominciato a distaccarsi dall’Europa e da un’Ue che si è risvegliata in ritardo dal suo sonno kantiano. La pace perpetua non esiste; la difesa europea neanche, per ora. Ma va costruita: le scelte da compiere sono a questo punto “esistenziali”. Non solo: è sulla difesa che comincia a disegnarsi un’Europa diversa da quella che abbiamo. I paesi europei, o almeno alcuni d’essi, hanno cominciato a muoversi in questa direzione. La Germania lo sta facendo rivedendo il tetto al debito del bilancio e cancella anche le sue remore verso un’idea di potenza a lungo bandita … Comincia una nuova storia che è difficile liquidare semplicemente come riarmo tedesco. Poi c’è la Francia, che fa leva sulla propria capacità nucleare per proporre di rafforzare la deterrenza europea. La Gran Bretagna utilizza la difesa per recuperare un aggancio all’Europa dopo anni di solitudine post-Brexit. E anche se l’attuale premier inglese cerca di tenere in vita i rapporti con Washington, sa bene di non poter contare su un uomo mercuriale come Donald Trump che cambia idea da un giorno all’altro, per lo meno finché i suoi elettori glielo permetteranno. La Polonia, adesso, pesa molto più di prima, con un bilancio della difesa veramente imponente del 5 per cento e con una prossimità a quel fronte orientale che è diventato decisivo dopo l’aggressione della Russia all’Ucraina. La vicinanza geografica conta, naturalmente … Esiste il rischio di una nuova divisione nord-sud determinata, questa volta, non da problemi fiscali ma dalla diversa percezione della minaccia. Per i servizi segreti delle due potenze nucleari europee, il pericolo Russia va considerato reale. Per questa stessa ragione l’Ucraina è diventata una sorta di linea avanzata di difesa dell’Europa: ed è anche per questo che va aiutata a resistere fino a una difesa accettabile — cosa che non importa minimamente a Trump —, che andrà poi garantita in futuro; permettere che Putin compia un primo e decisivo passo verso il recupero di una sfera d’influenza verso l’Europa baltica e orientale non è negli interessi del Vecchio continente».

La difesa, quella comune, come si vede modifica la vecchia Ue: cambiano le scelte economiche e fiscali, si modificano gli equilibri politici. E ne deriva una maggiore flessibilità: coalizioni ad hoc con Gran Bretagna e Norvegia e superamento di fatto, attraverso questo strumento della paralisi legata all’unanimità. L’Italia può essere dentro questa nuova dinamica: dovrebbe essere un interesse nazionale su cui unirsi invece che dividersi. O può restarne ai margini, sperando che la Russia — che continua ad attaccare il nostro Presidente della Repubblica, ritenendo evidentemente che il nostro Paese sia un ventre molle da scardinare — non sia poi così minacciosa. E che l’America ci tratti con speciale riguardo. Diciamoci la verità: sono illusioni, su cui non è saggio fondare la nostra sicurezza nazionale in un’epoca in cui, al contrario, conterà solo la durezza della realtà. Una realtà basata su una forte e solida unità politica dei 27 più la Gran Bretagna e alcuni altri paesi, e su una forza armata di difesa capace di rivaleggiare e forse anche di superare quella due attuali superpotenze. Tutto questo andrebbe spiegato e capito da un’opinione pubblica talmente abituata alla pace da non riuscire più a capire perché sia necessario difenderla.

Ecco perché, in chiusura, invitiamo ancora una volta tutti i lettori che vogliano veramente attingere al pensiero di Rossi, Spinelli e Colorni, a rileggere con attenzione ciò che hanno scritto 80 anni fa, perché nelle loro parole c’è il nostro futuro.

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