
Pochi giorni fa si è svolta a Roma e in altre piazze d’Italia una manifestazione che non ha precedenti. Una manifestazione non “contro” qualcosa ma “per” qualcosa, una manifestazione al cui centro giganteggiava una sola parola: “EUROPA”. È stato uno spettacolo veramente toccante vedere lo sventolìo di centinaia di bandiere blu stellate dell’Unione Europea (UE) e di altrettante bandiere della pace, a conferma che ci sono moltissime persone, in Italia e nel mondo, che considerano l’obiettivo “pace” l’unica soluzione ai guasti, alle controversie, ai massacri che dopo 80 anni di pace stanno nuovamente insanguinando il mondo, per lo meno parte di quello occidentale, perché in Medio Oriente i vari conflitti non conoscono confini.
Il nome di un’isoletta tirrenica primeggiava fra la folla: Ventotene. Ventotene era la sede di un carcere dove il fascismo deteneva i suoi oppositori, fra i quali Ernesto Rossi, Altiero Spinelli ed Eugenio Colorni. Due d’essi, Spinelli e Rossi, elaborarono una sorta di manifesto, nel quale si gettavano le basi, in quel momento storico del tutto utopistiche, di un continente, l’Europa, che, uscita da due guerre sanguinose in solo mezzo secolo, non avrebbe dovuto più conoscerne, federandosi e costituendo gli Stati Uniti d’Europa. In esso si affermava la necessità di creare una forza politica esterna ai partiti delle singole nazioni, che sostenesse un blocco internazionale. Le attuali guerre sui fronti europei e mediorientale, la situazione economica e la geopolitica impongono il superamento dell’attuale assetto; i singoli Paesi UE — bisogna prenderne atto — non sono più in grado di sostenere il confronto con le nazioni più forti e devono obbligatoriamente conformarsi agli obiettivi convergenti di Mario Draghi e Fabio Panetta, governatore della Banca d’Italia. Obiettivi che prevedono la creazione di un’economia moderna anche in Europa, puntando sulla tecnologia, la sburocratizzazione, l’innovazione. E come ha precisato il governatore: “Siamo un Paese dalle potenzialità enormi. Dobbiamo inserirci nel circuito produttivo mondiale e per riuscirci dobbiamo fare le riforme, dobbiamo modernizzare continuando ad investire in beni materiali ed immateriali. Soprattutto dobbiamo aumentare la produttività”.
L’idea di un’Europa che ripudia le guerre al suo interno e con le altre nazioni non è affatto nuova. Ne parlò circa duecento anni fa addirittura Immanuel Kant nel suo Per la pace perpetua, nel quale l’idea principale era quella per cui «è un dovere intellettuale proclamare l’impossibilità della guerra. Anche se non vi fosse alternativa». Le parole del grande filosofo non debbono però farci trascurare quella che è la dura realtà da lui stesso riconosciuta, e cioè che «lo stato di pace tra gli uomini, che vivono gli uni a fianco degli altri, non è uno stato naturale (status naturalis)», il quale è piuttosto uno stato di guerra, ossia anche se non sempre si ha uno scoppio delle ostilità, c’è però la costante minaccia, da cui deriva la presa d’atto degli antichi, che abbiamo menzionato in recenti articoli, ovvero “si vis pacem para bellum”, il che vuol dire che anche in tempo di pace si deve essere sempre pronti alla guerra. E esso — lo stato di pace — deve dunque venire istituito; poiché l’assenza di ostilità non rappresenta alcuna garanzia di pace, e se questa garanzia non viene fornita a un vicino dall’altro (la qual cosa può avvenire solo in uno stato di legalità), il primo può trattare il secondo, a cui abbia richiesto questa garanzia, come un nemico.
Ma da Kant ad oggi il tempo è trascorso e molte cose sono cambiate, le caratteristiche del secolo attuale determinano un avvenire molto incerto legato alle grandi sfide che vanno certamente oltre la capacità risolutiva dei singoli Stati che compongono l’UE. Del resto, la pandemia, la crisi israelo-palestinese, attorno a cui ruota la profonda instabilità di tutto il Medioriente, il rapporto con la Russia e il conseguente conflitto ucraino e infine la tensione latente nell’Oceano Pacifico, che vede contrapposti Cina e Stati Uniti, presentano una forte connotazione globale che influenza ciascun membro della UE.
Tuttavia, i Paesi UE, presi uno ad uno, non hanno le risorse economiche, strategiche, militari e – non ultimo la leadership – per fronteggiare simili sfide che mettono in discussione il benessere dei cittadini delle singole comunità nazionali. Ecco perché si è fatta strada l’idea, approdata in sede di Parlamento europeo, di un riarmo delle singole nazioni dei 27, in attesa che si possa dar vita ad un esercito comune, ad una politica economica comune e a molte altre cose che richiedono tempo, energie e molta buona volontà. Oggi che la pace tra i Paesi membri della UE è ampiamente raggiunta e consolidata grazie ad un percorso maturato essenzialmente con la creazione di un mercato unico e di una moneta unica, occorre rafforzare la condivisione di altre politiche necessarie a fronteggiare le sfide o, meglio, gli shock di cui abbiamo accennato in precedenza. La piazza per l’Europa non era una piazza di idee appiattite su un unico consenso, affatto; ognuno portava con sé la propria idea di Europa; ciò che spetterebbe adesso a tutti i nostri rappresentanti, a qualunque livello, è di adoperarsi perché il nucleo comune della richiesta globale, gli Stati Uniti d’Europa, cominci a prendere forma.
Vi sono molte criticità che costituiranno dei seri ostacoli alla realizzazione del progetto, ai quali bisognerà metter mano. E, per citare ancora una volta Mario Draghi, le cui competenze non possono essere messe in discussione: “In ultima analisi, sarà necessario completare una trasformazione che attraversi tutta l’economia europea. Dobbiamo poter contare su sistemi energetici decarbonizzati e indipendenti; un sistema di difesa integrato e adeguato a livello di UE; produzione nazionale nei settori più innovativi e in più rapida espansione; e una posizione di leadership nell’innovazione deep-tech e digitale, che sia vicina alla nostra base produttiva”. Il che significa anche massicci investimenti in settori cardine come tecnologia, difesa e anche infrastrutturale al fine di accelerare ancora di più gli scambi di beni e persone, comportano una condivisione a livello comunitario non solo degli investimenti ma di una adeguata politica fiscale e di indebitamento che li sostenga. Per questa ragione, occorre una profonda revisione degli schemi attuali che regolano la politica economica della UE, anche al fine di rivedere la distorsione di una moneta unica e di 27 debiti nazionali (e 27 politiche economiche che non sempre agiscono in sintonia).
Ritornando alla piazza della manifestazione, abbiamo già detto che, sebbene unita da un ideale comune, non lo era sotto molti altri aspetti, per esempio il riarmo nazionale che al momento è la strada che il Parlamento europeo sembra voler perseguire in attesa di costituire il tanto auspicato esercito europeo. Contro il riarmo tout court, si sono levate molte voci, ma v’è un riarmo sul quale certamente non si potrebbe non essere tutti d’accordo. Si tratta di ciò a cui ha accennato un senatore francese, Claude Malhuret, qualche giorno fa in un discorso alla Camera alta francese. L’anziano senatore ha espresso l’opinione che la guerra per la conquista dello spazio imperiale russo lanciata da Putin non si fermerà all’Ucraina e che l’UE dovrà lottare per la propria sopravvivenza. E che non basteranno soldi per nuove armi, né la buona volontà dei governi. E poi ha spiegato come il «compito immane» di proteggere il Vecchio mondo non si esaurirà in più investimenti, più produzione industriale e nuove strutture di comando. Nulla sarà sufficiente se gli europei non sapranno dare vita a un «riarmo morale». Se i semplici cittadini non decideranno tutti insieme che è giusto difendere l’Europa come patria della democrazia liberale, così come è stata sognata e costruita dopo il 1945.
Per ottenere questo non è sufficiente che si dica di volerlo fare, ma si deve operare a tal fine, e la prima cosa è quella di integrarsi armonicamente. Gli obiettivi ambiziosi delineati da due autorevoli civil servant italiani come Mario Draghi e Fabio Panetta possono essere perseguiti solo mediante un percorso di integrazione istituzionale europea. Per i detrattori ciò significa spogliare gli Stati di sovranità. Tuttavia, in concreto, questo passaggio è obbligato per rispondere ad istanze dei cittadini di tutto il continente che altrimenti rimarrebbero senza risposta. E questa, in fondo, è la sostanza del “Manifesto”, cioè che «bisogna riconoscere che la Federazione Europea è l’unica concepibile garanzia che i rapporti con i popoli asiatici e americani si possano svolgere su una base di pacifica cooperazione, in attesa di un più lontano avvenire, in cui diventi possibile l’unità politica dell’intero globo. Ecco perché occorre sin d’ora gettare le fondamenta di un movimento che sappia mobilitare tutte le forze per far nascere il nuovo organismo che sarà la creazione più grandiosa e innovatrice sorta da secoli in Europa; per costruire un saldo stato federale, il quale disponga di una forza armata europea al posto degli eserciti nazionali; spezzi decisamente le autarchie economiche, spina dorsale dei regimi totalitari; abbia gli organi e i mezzi sufficienti per far eseguire nei singoli stati federali le sue deliberazioni dirette a mantenere un ordine comune, pur lasciando agli stati stessi l’autonomia che consenta una plastica articolazione e lo sviluppo di una vita politica secondo le peculiari caratteristiche dei vari popoli». Stiamo parlando di un’utopia, di un sogno? Forse. Ma la realtà è che questa è l’unica strada da percorrere se vogliamo dar vita ad un vero movimento per l’Europa libera e unita. Ed è quando questo sarà realizzato che l’isola di Ventotene non sarà soltanto più un riferimento geografico, ma il punto d’inizio di una nuova era per i popoli europei.