Democrazie e liberalismo

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La democrazia, sistema politico che vige attualmente in circa la metà dei centonovantatré Stati del mondo, è certamente il tipo di governo migliore rispetto a tutti gli altri, anche se questo non significa che sia esente da imperfezioni e necessiti di correttivi, come tutto ciò che è di origine umana. Non si spiega, altrimenti, il perché delle parole pronunciate dal presidente francese Emanuel Macron nel 2017 proprio nella patria della democrazia, ad Atene sotto l’ombra del Partenone, quando disse: “nell’Europa d’oggi, la sovranità, la democrazia e la fiducia sono in pericolo”, mentre uno dei più grandi giornali degli Stati Uniti, il Washington Post ha incluso un nuovo motto nella sua prima pagina: “La democrazia muore nell’oscurità”. Sappiamo tutti cosa vuol dire o cosa vorrebbe poter dire il termine “democrazia”, cioè potere del popolo; vuol dire che le persone che sono designate a guidare il paese, a prendere le decisioni, a stabilire ciò che è legale e ciò che non lo è, non sono scelte da un sovrano assoluto in base al suo personale arbitrio, ma dal “popolo”, ovvero dai cittadini di una nazione che si recano alle urne nelle quali depongono una scheda con il nome del candidato da essi scelto per assumere una determinata carica pubblica. Ma il semplice gesto di depositare una scheda con un nome in un’urna è garanzia di democrazia? Siamo certi che al termine della competizione elettorale chi ne uscirà vincitore si farà cura di operare in modo tale da soddisfare le richieste dei cittadini che gli hanno affidato il privilegio di decidere per loro? Se le cose stessero così, da dove viene il malumore sempre imperante fra le masse popolari nei confronti dei loro governi, ai quali sono spesso rivolti non elogi ma improperi?

Dobbiamo, quindi, precisare che, sebbene sia fortemente auspicabile, democrazia e liberalismo, che dovrebbero rappresentare un binomio inscindibile, non sempre vanno di pari passo, anzi. Spesso Stati dove si svolgono regolarmente elezioni, come Turchia, Polonia e Ungheria, divengono illiberali, limitando la libertà d’espressione, la libertà di associazione o l’indipendenza del sistema giudiziario, quindi minando la stessa democrazia. Questo perché democrazia e liberalismo non sono la stessa cosa, anche se dovrebbero tendere allo stesso fine, ovvero, il benessere dei loro amministrati, che li hanno scelti proprio per questo. Accade, invece, che in alcuni Stati la forbice tra democrazia e liberalismo si divarichi sempre di più a scapito della seconda. Anche in paesi di antica democrazia, come il Regno Unito, vengono scoperte limitazioni della democrazia, come la privazione del diritto di voto per i detenuti, qualunque sia il reato da essi commesso; o come gli Stati Uniti, dove la democrazia sta diventando plutocrazia, e il rappresentante della nazione viene eletto dalla maggioranza degli Stati, anziché dalla maggioranza della popolazione, tanto che l’attuale presidente, Donald Trump, nel suo primo mandato venne eletto nonostante avesse ottenuto quasi tre milioni di voti popolari in meno della sua concorrente. Quindi, quando parliamo di democrazia è necessario fare delle precisazioni, dei distinguo. Alex de Tocqueville, nel 1835, nel suo De la Démocratie en Amerique scrisse: “Il potere sociale deve emanare direttamente dal popolo”, e trent’anni dopo un presidente americano che nei nostri scritti abbiamo citato più volte, Abramo Lincoln, disse che la democrazia è “il governo del popolo, dal popolo, per il popolo”, definizione che risale al diritto romano: «quod omnes tangit ab omnibus approbetur» (ciò che riguarda tutti dev’essere approvato da tutti).

Quanto sopra richiede che ci poniamo delle domande pertinenti. In primo luogo, da chi è composto il popolo? Poi, come si organizza? In terzo luogo, è proprio il popolo, direttamente, che fa sentire la sua voce nella democrazia? Infine, come fa sentire la sua voce il popolo? Quindi, è veramente il popolo che governa? Negli ordinamenti considerati democratici, le decisioni non sono prese dal popolo, per quanto lo riguardino direttamente, ma da un numero limitato di persone che agiscono come delegati del popolo. L’investitura derivante dal verdetto delle urne, non è una scelta, perché la proposta delle persone da eleggere, chiamata candidatura, spetta sempre a partiti e gruppi politici organizzati, che presentano liste di candidati, e i votanti sono più o meno vincolati (in qualche caso possono scegliere da una lista, in altri non possono scegliere; comunque non possono, in genere, avanzare autonome candidature). Ed ecco un altro limite della democrazia. Secondo la classificazione aristotelica, essa è piuttosto un’oligarchia corretta da periodiche elezioni.

Detto questo, ci chiediamo: qual è lo stato della democrazia in Italia? Alcuni si attenderebbero che si cominciasse esprimendo un giudizio sulla partecipazione elettorale, sull’attenzione dei cittadini per la cosa pubblica, sulla vitalità dei partiti, sul funzionamento del Parlamento. Invece ci preme cominciare dall’altro lato della catena: la cura con cui vengono scelti i funzionari pubblici, il loro impegno nello svolgimento della funzione o del servizio pubblico, la soddisfazione dei cittadini per il funzionamento dell’amministrazione. Perché questo è il problema: raccogliere la volontà del popolo occorre, innanzitutto, per servire il popolo stesso; chi dovrebbe farlo potrebbe anche badare ai propri interessi. Quando parliamo di stato democratico non intendiamo dire che ogni sua parte è ispirata al principio del rispetto della volontà popolare. Nessuno si aspetta che il medico del Servizio sanitario sia eletto democraticamente, oppure che lo sia l’ingegnere che si interessa di lavori pubblici, o l’insegnante, o il funzionario pubblico o il giudice. Questi personaggi sono parte di una sorta di aristocrazia (o, come vedremo più avanti, di una epistocrazia), e sono scelti nel rispetto del principio di uguaglianza, in base al criterio del merito, per le loro abilità, per l’esperienza acquisita, per le loro conoscenze, per la loro professionalità, in modo da selezionare i migliori. Nel corso della loro attività non devono preoccuparsi di seguire dettati popolari, ma regole tecniche, spesso studiate e diffuse da ordini professionali. Non debbono rispondere al popolo, ma a criteri deontologici. Non debbono essere di parte ma imparziali. Se vogliamo dire schiettamente la verità dovremmo, in uno Stato utopistico, volere che anche i canditati a importanti cariche pubbliche lo fossero per le loro qualità personali, culturali, economiche — che quasi sempre ignoriamo o non possiedono — ma che invece sono scelti per la fedeltà al boss di partito, alla sua corrente e alle promesse che da questi gli vengono fatte di “avanzamento” nella carriera e nelle prebende. Tutto ciò che abbiamo esplicitato sopra non è democratico, ma non deve neppure essere influenzato dalla democrazia, perché è sottratto alla sua influenza. C’è una restrizione dello spazio dominato dalle maggioranze democratiche a favore di quello delle competenze. La rappresentanza popolare non entra in gioco. Come osservò Alcide De Gasperi al congresso di Venezia del suo partito, la Democrazia cristiana, del 1949, «la competenza tecnica è necessaria e non sempre disponibile come la tessera di partito».

Dunque la democrazia è un tratto distintivo dello Stato moderno, ma lo Stato moderno non è costituito solo dalla democrazia. Tanto più che interviene anche un elemento come quello della uguaglianza, che è liberale prima ancora che democratico. Anzi, le componenti autoritarie e liberali dello Stato moderno sono quelle iniziali, alle quali si è venuta poi ad aggiungere la componente democratica. Per fare un esempio di rilevante importanza, che ci aiuti a capire, potremmo chiederci se sia opportuno il ricorso alla votazione popolare per la scelta dei giudici. Ciò contribuirebbe a democratizzare gli organi di garanzia. Ma non attenuerebbe anche la loro funzione di garanzia? Giudici eletti potrebbero meglio interpretare lo spirito del popolo. Ma, d’altra parte, le corti debbono giudicare secondo il diritto. Sarà quindi bene che ne facciano parte «sacerdoti del diritto». Dunque, la Repubblica è democratica, ma non è tutta democratica. Una parte delle sue funzioni è affidata a persone scelte non sulla base della loro rappresentatività, ma della loro competenza ed esperienza, misurate con tecniche diverse dall’elezione, mediante valutazioni competitive aperte a tutti (i concorsi). E a esse è imposto di agire in modo imparziale e indipendente dalla politica. Questa componente è stata chiamata di recente epistocratica, nel senso che attribuisce il potere a coloro che sanno, ai competenti. Vogliamo por fine a questa disamina, affidandoci alle parole spesso illuminate di Norberto Bobbio, al quale ci affidiamo per chiarire ciò che abbiamo detto in precedenza circa il binomio democrazia-liberalismo che possono, anzi devono coesistere, pur essendone diverse le componenti. Dice Bobbio: «Mentre il liberalismo ha per principio ispiratore la libertà individuale, il principio ispiratore dell’idea democratica è l’eguaglianza. Liberalismo e democrazia non sempre si possono facilmente distinguere, perché rappresentano due momenti della stessa lotta contro lo Stato assoluto. Il quale, come Stato senza limiti, offende la libertà, ma, come Stato fondato sul rango, sui privilegi di ceto, sulla distinzione dei cittadini in diversi stati con diversi diritti e doveri, offende l’eguaglianza. Ciononostante sono due momenti distinti, e spesso nella storia costituzionale, appaiono contrapposti, anche se oggi, essendo confluiti l’uno nell’altro, hanno dato origine a regimi che sono insieme liberali e democratici. A questa stregua, mentre il liberalismo tende a proteggere essenzialmente i diritti civili, per esempio la libertà di pensiero e di stampa, di riunione e di associazione, la dottrina democratica ha come suo fine principale la difesa dei diritti politici, con la quale espressione si intendono i diritti di partecipare direttamente o indirettamente al governo della cosa pubblica. Uno Stato è tanto più democratico quanto più numerose sono le categorie dei cittadini a cui estende i diritti politici, sino al limite del suffragio universale, cioè dell’attribuzione dei diritti politici a tutti i cittadini con la sola limitazione dell’età, e quindi prescindendo da ogni differenza riguardante la ricchezza, la cultura o il sesso. Il che spiega, tra l’altro, come vi possa esser un divario tra uno Stato liberale puro e uno Stato democratico puro: uno Stato in cui fossero riconosciuti i principali diritti civili, ma il suffragio fosse ristretto, come accadeva in Italia sino al 1912, poteva dirsi liberale, ma non  democratico; d’altra parte, uno Stato a suffragio universale può, servendosi degli stessi congegni della democrazia, instaurare un regime illiberale, come è accaduto in Germania nel 1933, quando il nazismo si impadronì del potere attraverso le elezioni».

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