
Anche chi segue distrattamente le vicende nazionali e internazionali non ha difficoltà a percepire l’impazzimento generale che riguarda praticamente tutto l’orbe terracqueo, come se ci si trovasse su una giostra fuori controllo che non ne vuol sapere di fermarsi. Quotidianamente ci vengono somministrate ampie porzioni di follia spacciate per politica, come la Costa Azzurra nella striscia di Gaza, o la spartizione dell’Ucraina come avvenne per le due Coree, l’acquisto della Groenlandia, come se il mondo fosse un supermercato. Poi abbiamo le panzane, o balle colossali, che Trump e il suo entourage ci somministrano un giorno dopo l’altro, pretendendo di farcele ingoiare perché provengono dall’«Unto del Signore» e dalla sua cerchia di fedeli angeli custodi (e finanziatori). Da questa giostra di esternazioni quotidiane, una più colossale dell’altra, pronunciate da chi detiene il potere di far saltare in aria il mondo che noi conosciamo, Usa, Russia e Cina, vorremmo veramente poter scendere e ritrovare i ritmi di vita di una volta. Questo perché il mondo sta cambiando con una velocità imprevista, la storia galoppa e non concede requie nemmeno ai più disattenti e ai più pigri.
Il disorientamento e anche un livello non ordinario di paura sono stati d’animo diffusi: ognuno di noi può percepirli nelle conversazioni quotidiane. Non serve un politologo o un filosofo. Basta un amico al bar per sapere che si guarda al presente con sconcerto e al futuro con apprensione. In un nostro recente articolo abbiamo parlato estesamente di Occidente nelle sue varie declinazioni, e adesso ci chiediamo: esiste ancora un concetto politico-strategico di “Occidente” nel quale sono cresciute le ultime generazioni di — appunto — occidentali? Che fine farà l’Europa, che oggi ci appare il classico vaso di coccio tra due vasi di ferro, per giunta colmi di bombe atomiche? Uno dei più noti giornalisti di la Repubblica, Michele Serra, ha voluto dedicare una “amaca”, la sua rubrica quotidiana, ad una sorta di gioco di mondo al contrario, e cioè se alle balle colossali che ci vengono propinate, invece di restare proni e succubi, potessimo rispondere con balle ancora più grosse. Ed ecco la sua proposta: «Non vale richiamare alla realtà, alla verità, alla ragione. È fiato sprecato. Non si affronta un pazzo megalomane, per giunta pieno di miliardi e con l’atomica in tasca, contrapponendogli buon senso e buoni propositi. No, forse funziona meglio spararle più grosse. Ci sarà pure modo di rubare al nemico una IA, anche di seconda mano, e per esempio produrre un video nel quale i bambini palestinesi cuociono allo spiedo Elon Musk, con le banconote fritte di contorno. O nel quale Putin dichiara di ritirarsi dall’Ucraina e il patriarca Cirillo annuncia di voler partecipare al gay pride, forte del suo costume così sfarzoso che non sfigurerebbe al carnevale di Rio. Video falsi nei quali Hamas chiede scusa ai palestinesi, Netanyahu agli israeliani, i trapper leggono Seneca vestiti in modo modesto, Salvini dice una cosa gentile e il giorno dopo anche una intelligente, gli ayatollah elogiano il panteismo e rivalutano Zoroastro, nei talk show si parla a bassa voce e si ascoltano gli altri. Milei restituisce la motosega al negozio dove l’ha rubata. Non sarebbe bellissimo?»
Purtroppo questo di Serra è soltanto un esercizio iperbolico destinato a farci sorridere (e sognare) perché nulla di quanto da lui ipotizzato nelle “contro balle” è al momento — e non sappiamo ancora per quanto — realizzabile. Come sarebbe bello, lo ripetiamo ancora una volta, se l’Europa prendesse consapevolezza di sé stessa, della sua storia, del suo immenso potenziale, economico, militare e culturale. Sopravvivrà la way of life europea a questa stretta, che mette in discussione ciò che banalmente chiamiamo democrazia, ovvero separazione dei poteri, diritti e doveri uguali per tutti, libertà religiosa e laicità dello Stato, pari dignità e pari serenità per chi è al governo e a chi si oppone? E se le autocrazie parlano semplice e parlano chiaro (e parlano falso a loro piacimento, grazie alla costante contraffazione tecnologica della realtà), quale linguaggio dovrà adottare l’Europa perché la sua voce non solo sia udibile, ma anche forte, convincente, seducente almeno quanto la voce dei suoi nemici? Basterebbe raccogliere l’invito, semplice ma vigoroso, rivolto qualche giorno fa da Mario Draghi ai governanti dei paesi europei: “do something”, “fate qualcosa”, espressione che coglie il senso di vuoto e la relativa ansia di riempirlo, che apparenta milioni di europei in questo momento, non rappresentati come vorrebbero e come meriterebbero. L’esortazione di Draghi ci ricorda, come umore e come intenzione, il “dì qualcosa di sinistra!” che Nanni Moretti, secoli fa, rivolse a Massimo D’Alema. Con relativo corollario: “con questi dirigenti non vinceremo mai!” A questo punto della storia è mai possibile che nella mente di nessuno di noi europei venga in mente di organizzare una grande manifestazione di cittadini per l’Europa, la sua unità e la sua libertà. Con zero bandiere di partito, solo bandiere blu stellate; un presidio che riempia una piazza o foss’anche una piazzetta, per dare almeno l’impressione che esiste un’opinione pubblica che si sente europea, e non vorrebbe morire stretta nella tenaglia Trump-Putin? É così difficile capire che la politica è fatta anche di passioni, di valori, di senso di appartenenza, e una comunità si costruisce non solamente attorno ai convegni tutti chiacchiere e cravatta, ma anche in piazza?
Abbiamo mai provato a pensare, solo in Italia, quanti sarebbero disposti a scendere in piazza per l’Europa unita — anche se poi non se ne fa niente dell’Europa unita — giusto per il sollievo di sapere che, anche se non esiste l’Europa, esistono gli europei? Una di quelle cose che chi ci sta ci sta, senza calcoli di alleanze, di strategie, una cosa organizzata per i cittadini, su loro misura, per loro sollievo, ed esortarli a “dite qualcosa di europeo!” E, a proposito di slogan, se ne potrebbe suggerire uno da far pronunciare all’ipotetica piazza europeista: “Qui o si fa l’Europa o si muore!” Una manifestazione del genere, composta di sole bandiere europee e da gente pacifica ma determinata, che abbia come unico obiettivo (non importa quanto alla portata: conta la visione, conta il valore) la libertà e l’unità dei popoli europei, avrebbe un significato molto profondo e rasserenante per chi la fa, e si sentirebbe meno solo e meno impotente di fronte agli eventi. E sarebbe un segnale non trascurabile, forse addirittura un segnale importante, per chi poi maneggia le agende politiche; e non potrebbe ignorare che in campo c’è anche un’identità europea “dal basso”, un progetto politico innovativo e rivoluzionario che non si rivolge al passato, ma parla del domani. Parla dei figli e dei nipoti. Nel mitico ’68 erano chiare le forze in campo; fu un periodo di speranza in cui i giovani fecero sentire la loro voce, e non con gli smartphone o attraverso i social che, mi si perdoni il termine, li stanno rincoglionendo tutti. Il movimento del Sessantotto, o più brevemente Sessantotto, fu un fenomeno socio-culturale avvenuto negli anni a cavallo dell’anno 1968, durante i quali grandi movimenti di massa socialmente eterogenei (studenti, operai, intellettuali e gruppi etnici minoritari), formatisi spesso per aggregazione spontanea, interessarono quasi tutti gli Stati del mondo con la loro forte carica di contestazione giovanile contro gli apparati di potere dominanti e le loro ideologie. Lo svolgersi degli eventi in un tempo relativamente ristretto contribuì a identificare il movimento con il nome dell’anno in cui esso si manifestò in modo più attivo. Una volta c’erano i marxisti-leninisti, i neofascisti, gli uni contro gli altri armati, ma che non fecero eccessivi danni, diedero una dimostrazione di vitalità, di desiderio di cambiamento contro l’immobilismo delle gerarchie governanti. Oggi non è più così, oggi abbiamo gli italo-putiniani e gli italo-trumpiani, un po’ a sinistra e molto a destra, un po’ all’opposizione e molti in maggioranza. Non si azzuffano più. Anzi c’è uno scambio non troppo sotterraneo di amorosi sensi. Cos’è successo, come mai questo appiattimento su personaggi che non hanno niente a che fare con noi, con l’Europa? È vergognoso e desolante che un europeo tifi per Trump o per Putin: vuol dire che per noi l’Europa conta di meno di questi due gerarchi ai quali dell’Europa interessano solo le risorse e degli europei non gliene frega una benemerita mazza. Credo che sia anche chiaro che il minimo comune denominatore che li tiene uniti ci sia e sia importante: il comune disprezzo per la democrazia, di cui Trump e Putin non sono certo campioni. Anzi. Probabilmente entro poco tempo in America vedremo un profondo cambiamento: anziché il loro motto storico “in God we trust”, vedremo “in Trump we trust”. In questo momento sono preoccupato per la tenuta della democrazia in America perché, anche se sopravvivrà a Trump, a Musk e ai loro, neppure in America la democrazia e la libertà sono per sempre. È sull’Europa che dobbiamo puntare, dobbiamo rivendicare l’orgoglio di essere europei, ai quali gli americani debbono tutto, anche se non sono adusi a mostrare riconoscenza per un passato che dall’Europa ha riversato sulle sue sponde personaggi che l’hanno fatta grande, principalmente con il pensiero e non con i dollari. Forza, Europa!