
E Gesù, conoscendo i loro pensieri, disse loro: «Ogni regno diviso contro se stesso va in rovina; ed ogni città o casa, divisa contro se stessa non può durare» (Matteo, cap. 12). Parole vecchie di duemila anni ma che riflettono sempre una profonda verità. Verità che non cambia con il cambiare dei tempi, o con il tipo di “casa” a cui facciamo riferimento. Nel caso di cui desideriamo occuparci, la “casa” è quella costituita da due colonne portanti della nostra repubblica: il potere esecutivo e quello giudiziario, ovvero il Governo e la Magistratura, impegnati ormai da troppo tempo in un’aspra tenzone che rischia di degenerare nella delegittimazione di entrambi i poteri e di mettere a rischio la tenuta democratica del Paese.
In realtà questo disarmante conflitto, che scredita pesantemente le parti in causa, ha radici profonde. Credo che siano in molti a ricordare ancora le disdicevoli invettive di Silvio Berlusconi nei confronti dei magistrati che lo inquisivano per le sue condotte ritenute penalmente rilevanti. Anch’egli cercò di trasformare l’azione — obbligatoria — dei giudici nei suoi confronti, definendoli “comunisti”, introducendo così una connotazione politica in un procedimento processuale che metteva alla sbarra un cittadino indagato per aver violato la legge, cercando così di trasformarsi in una vittima o addirittura in un “martire” perché cercava di mettere il benessere della Repubblica al primo posto (diceva lui). “La legge è uguale per tutti” è la scritta che appare in tutti i tribunali d’Italia. Che l’imputato sia un pescivendolo o un primo ministro è della minima importanza e del tutto irrilevante, ed è strumentale che quando ad essere inquisito è un cittadino comune l’orientamento politico — strettamente personale e riservato — dei giudicanti non rilevi e non debba rilevare in alcun modo nello svolgimento del processo, mentre assume la massima importanza se l’inquisito appartiene alla categoria dei “colletti bianchi”, che pretendono per sé stessi impunità e immunità, dicendo in effetti che, se la legge è uguale per tutti, c’è qualcuno più “uguale” degli altri.
Come abbiamo già detto, gli scontri tra la destra e la magistratura vengono da lontano, Iniziarono nel 1994 con Silvio Berlusconi e dopo trent’anni siamo ancora lì: alle accuse ai giudici di sinistra, solo che adesso non riguardano un solo uomo politico, ma sono ben 40 i parlamentari che hanno un conto aperto con la giustizia. Recentemente le cronache giudiziarie si sono occupate principalmente di due di loro, il senatore Delmastro e la senatrice Santanché, indagati per diversi reati perseguibili penalmente. Delmastro è stato condannato in primo grado, e questo ha scatenato un corpo a corpo. L’Associazione Nazionale Magistrati non ci sta a finire di nuovo nel mirino e ribatte con toni severi alle aggressioni subite dopo la condanna di Delmastro e replica al ministro della giustizia, Nordio (non dimentichiamo che è un ex magistrato), che addirittura ha espresso l’auspicio che la pronuncia sia ribaltata. Lo stesso sottosegretario alla giustizia, Francesco Paolo Sisto, così si è espresso: “I magistrati vogliono scioperare contro le leggi, ma non accettano commenti alle loro sentenze. Lo fanno solo gli Ayatollah”; parole pesanti, particolarmente se pronunciate da chi riveste la carica del senatore Sisto.
Ma ormai la frattura fra i due poteri dello Stato è profonda e apparentemente insanabile perché in fondo si tratta del preconcetto che i magistrati si vogliano sostituire al governo, e ogni politico inquisito ne sarebbe la dimostrazione, a prescindere dalla consistenza o meno delle accuse. Ricordiamo tutti le accuse rivolte da Meloni ai magistrati di voler governare il paese, e la sfida a candidarsi alle elezioni se proprio ci tengono, e con queste parole sembra essere il Berlusconi reincarnato che tacciava le procure “rosse” di eversione. La “sorella d’Italia” che dice che “i giudici non possono decidere tutto perché nessuno li ha eletti”, suona la stessa musica del Cavaliere che inveiva contro la magistratura “cancro da estirpare” perché “concepisce il proprio ruolo in termini di egemonia rispetto a una politica che esprime la volontà popolare”. Dal Caimano di Arcore alla Underdog della Garbatella la musica è la stessa: una toga per nemico. Il paradosso è che la resa dei conti finale con il potere giudiziario la consuma adesso proprio una nipotina del MSI di Almirante, intriso di giustizialismo legalitario e securitario. E che a portare avanti le pretese “riforme dell’ordinamento giudiziario” — le stesse pensate da Licio Gelli, per rimetterlo sotto il tacco dell’esecutivo — sia proprio una ragazza entrata in politica per rabbia di fronte al corpo straziato di Borsellino in Via D’Amelio.
Ma, triste a dirsi, la caccia alla Magistratura sta prendendo sempre più piede negli ambienti di destra e della destra estrema. Come non menzionare ciò che sta accadendo negli Stati Uniti dove il magnate attualmente al potere non vede l’ora di fare i conti con chi nel passato lo ha — giustamente — perseguito, permettendosi così di toccare “il prescelto da Dio”. Si prenda per esempio il delirante comizio di The Donald nel giorno dell’inaugurazione del suo secondo mandato: “La bilancia della nostra giustizia sarà riequilibrata, la violenta e ingiusta trasposizione dell’amministrazione giudiziaria in un’arma contro la politica finirà”. La miscela esplosiva e seduttiva tra populismo e autoritarismo abbatte decenni di cultura costituzionale e di misura istituzionale, lasciando campo libero ai nuovi unti del Signore: il popolo ci ha votato, dunque siamo legibus soluti. Tutti gli altri poteri dello Stato sono sott’ordinati, proprio perché non eletti e dunque privi di legittimità popolare. Nessun organo “terzo” ci può controllare, inquisire, condannare, le urne ci conferiscono immunità di diritto e/o impunità di fatto. Berlusconi provò a proteggersi dai processi con gli scudi del lodo Schifani, del lodo Alfano e di una dozzina di leggi ad personam. Meloni si accontenta per ora dell’abolizione dell’abuso d’ufficio, dello smantellamento del traffico d’influenze, del bavaglio sulle ordinanze di custodia cautelare, della separazione delle carriere. Ma il prossimo passaggio sarà probabilmente quello dell’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale, cardine del sistema giudiziario, e questo “perché ce lo chiedono gli italiani” secondo la nostra Presidente. Io, per esempio, non gliel’ho mai chiesto e mai glielo chiederò, eppure sono un italiano.
Dietro la ferocia degli attacchi alla Magistratura e ad alcuni magistrati in particolare, c’è un metodo: la loro delegittimazione. Dietro questo bombardamento continuo di un Potere dello Stato democratico c’è un disegno: serve a coprire il silenzio assordante della coalizione su tutto il resto. Di qui alla fine della legislatura la “sorella d’Italia” non ha più niente da offrire al Paese se non la lunga lista degli auto-complotti di cui si sente vittima (ormai siamo a quota quindici tra caso Striano e caso Sangiuliano, fuori onda su Giambruno e finte inchieste su Arianna, fino ad arrivare ai tribunali che bloccano l’operazione Albania). Non c’è un euro in cassa e la nave Italia si è fermata, tra crescita zero e occupazione in retromarcia, con la produzione industriale a picco e cassa integrazione in salita del 30%. Servono nemici da costruire e da trasformare in capro espiatorio, e uno di questi è l’ordine giudiziario. Non è esagerato affermare che questa “politica” di aggressione ha pesanti ripercussioni in tutto il Paese perché una magistratura delegittimata è un incentivo a delinquere, in quanto è l’unico argine al dilagare della corruzione, degli abusi di potere, delle truffe a danno dei cittadini, che possono adesso essere addebitate all’azione di una magistratura malata e in cerca di riscatto e che così non è più credibile. È venuto a mancare il rispetto, termine ormai obsoleto, ma che è invece di importanza fondamentale in uno Stato nel quale la Giustizia è invece la garanzia che protegge i cittadini onesti e perbene dagli abusi di un mondo politico sempre più allo sbando e alla ricerca di legittimazione di cui esso stesso si è privato, come ogni giorno ci riferiscono le cronache dei giornali (non quelli di destra, che coprono tutto), e non è un caso che abbiamo menzionato il fatto che in Parlamento ci sono attualmente ben quaranta inquisiti per reati vari, ma collegati con le loro funzioni alla pubblica amministrazione della quale si abusa a tutto spiano. Qualche effetto, purtroppo, questa caccia alla magistratura lo ha avuto, perché ha perso quota tra le istituzioni nelle quali ancora gli italiani nutrono fiducia. Secondo Ilvo Diamanti il 54% dei cittadini giudica le toghe “troppo politicizzate”. Anche Nando Pagnoncelli certifica un calo di fiducia nella magistratura scesa al 45%. Per fortuna da questo degrado si salva la più alta istituzione della Repubblica, la Presidenza, che è tra il 56 e il 68% dei consensi. All’ultimo posto ci sono sempre i partiti, inchiodati tra il 4 e il 17%. De fabula narratur, cara Premier. Le toghe saranno pure screditate. Ma da quale pulpito predica questa politica indecorosa?