Il demolitore

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Disegno di Antonio Nacarlo

In un recente articolo su la Repubblica, Concita De Gregorio concludeva con queste parole: “É, questo, un tempo fragilissimo. Il pericolo enorme, se solo si riuscisse a vederlo”. Il pericolo proviene da varie parti ed in questo momento è rappresentato dalle due nazioni più potenti del mondo: gli Stati Uniti e la Russia. Da sempre storicamente nemici, tenuti a freno soltanto perché entrambi in possesso dell’arma nucleare che ha agito — fino ad ora — da deterrente, adesso che è cambiato radicalmente il quadro politico mondiale vi sono tutte le ragioni per condividere le preoccupazioni della giornalista summenzionata. Cos’è cambiato sì da rimettere in gioco tutti gli equilibri, le alleanze, gli accordi, i trattati che nei decenni della “guerra fredda” hanno tenuto a bada le pulsioni distruttive di Russia e America? Non sembri strano che associamo insieme i due ex competitor al trono di potenza mondiale, perché, come scrive Michele Serra, “Trump e Putin si assomigliano e si capiscono, e per entrambi l’Europa è solo un vecchio impiccio, e la democrazia un insieme di regole decrepite. La religione usata come arma ideologica è un altro tratto comune dei due nazionalismi; e una ragione in più per diffidare del laicismo europeo. È meglio non credere, dunque, a chi fa finta di sapere per davvero che cosa sta succedendo e tantomeno che cosa succederà. A partire dal concetto, già fragile in sé, di «Occidente», tutto è in discussione, compresa la democrazia così come eravamo abituati a pensarla. Siamo pronti a tutto, la sola certezza è che non moriremo di noia, speriamo di non morire di paura”.

È un esercizio difficile e molto impegnativo quello di cercare di raccapezzarsi in questo nuovo clima (anche atmosferico, purtroppo!) che aleggia sulla nostra vecchia Europa che, come abbiamo più volte sottolineato, può trovare la forza per resistere alle enormi pressioni che la opprimono soltanto (ri)trovando tutte le ragioni della sua esistenza e del suo ruolo sullo scenario mondiale. Sembra invece che, anche all’interno degli Stati che ne compongono il nucleo originario, vi siamo spinte disgregatrici che remano contro. Si prenda, per esempio, la recente e inaspettata posizione assunta da un pezzo dell’opposizione italiana, capitanata dall’ex primo ministro Giuseppe Conte, dei 5 stelle, che all’improvviso a favore di telecamera fuori Montecitorio sposa il pensiero del neoinquilino della Casa Bianca su tutta la linea. Trump, sostiene Conte davanti a cameramen e cronisti, «con ruvidezza smaschera tutta la propaganda bellicista dell’Occidente sull’Ucraina e dice una verità che noi del Movimento stiamo dicendo da tre anni: battere militarmente la Russia era irrealistico». Mosca, come Pechino, ha aggiunto, è un «grande player con cui non possiamo non dialogare. Lo scorporo delle spese militari dal patto di stabilità caldeggiato anche da Meloni è una follia». Questa posizione rappresenta una profonda frattura nella linea politica europea, che nel recente summit di Monaco alcuni degli stati membri sembrano voler attuare per difendersi dal ciclone Trump che, com’era prevedibile, sta scompaginando tutti gli assetti finora esistenti. Come dice bene un recente articolo de l’Espresso, Trump sta dando un calcio all’Europa, è tornato pieno di rancore e di desideri di vendetta e vuole scardinare i rapporti con la Ue.

Il ritorno del tycoon alla Casa Bianca rischia di rappresentare una svolta profonda e potenzialmente destabilizzante per l’Europa. Le sue recenti dichiarazioni a Davos del gennaio scorso non lasciano spazio a dubbi: l’intento di Trump è quello di ripensare radicalmente gli equilibri che finora hanno governato le relazioni transatlantiche, mettendo in discussione l’alleanza storica sia per quanto riguarda i rapporti economici sia per gli equilibri geopolitici. Arringando la platea di Davos il neopresidente ha tuonato: “Con Joe Biden l’America ha avuto l’inflazione più alta della storia”; “l’Arabia saudita investirà 600 miliardi negli Usa”; alle aziende dico ‘Producete in America’, se non lo farete pagherete i dazi”; “Stop all’invasione dal Messico”; “Il Congresso approverà il taglio delle tasse”; “farò pagare il 5% del PIL ai membri della Nato”; “Gli Usa saranno la capitale mondiale di IA e criptovalute”; “il Green Deal è un grande imbroglio”. È un Donald Trump scatenato quello intervenuto virtualmente al World Economic Forum di Davos, in Svizzera, che riunisce ogni anno il gotha dell’economia e della finanza globali. Il Presidente degli Stati Uniti, in collegamento da Washington, ha esposto le politiche commerciali che intende adottare nei confronti degli alleati europei, molti dei quali erano presenti all’evento. Il tycoon ha annunciato che chiederà all’Arabia Saudita e all’Opec di abbassare il costo del petrolio, dichiarando di essere rimasto “sorpreso” che ciò non sia accaduto prima dello scorso novembre. “Bisognava abbassarlo e, francamente, mi sorprende che non l’abbiano fatto prima delle elezioni. Non è stato un gesto di grande amore”, ha detto, sostenendo che, se il prezzo del petrolio scendesse, la guerra tra Russia e Ucraina “finirebbe immediatamente”. Sul tema cruciale dei dazi, Trump si è tenuto vago, dicendo che non ci sarà “posto migliore sulla terra” per creare posti di lavoro, costruire fabbriche o far crescere un’azienda che “proprio qui, nei buoni vecchi Stati Uniti”. E per tutti gli altri ci sarà da “pagare una tariffa”, ha aggiunto, spiegando che questi dazi avranno “importi variabili”, ma destineranno “centinaia di miliardi di dollari, se non migliaia di miliardi, al rafforzamento dell’economia e al pagamento del debito”. “È iniziata l’età dell’oro dell’America – ha ribadito – Il nostro Paese sarà più prospero che mai, così come il Pianeta intero, che sarà più pacifico. Sono qui per rimettere a posto le cose”. Eccolo qui il “Demolition Man” che vuole stravolgere il mondo così come l’abbiamo conosciuto e che per gratificare il suo ego incontenibile ha già dato inizio all’interno del suo stesso paese a epurazioni, licenziamenti, abolizione di organismi assistenziali con ricadute dolorose su ampie fasce delle popolazioni più deboli.

Sta quindi emettendo ordini esecutivi a raffica contro le normative ambientali introdotte da Biden, ritirato gli Stati Uniti dall’Organizzazione mondiale della sanità e annunciato dazi del 25% sui beni provenienti da Canada e Messico entro la fine del mese. Le élite globali riunite a Davos sono dunque ben consapevoli che il clima sta cambiando sulla scena internazionale: “L’ordine mondiale cooperativo che avevamo immaginato 25 anni fa non si è trasformato in realtà”, ha affermato la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen nel suo intervento alla plenaria del forum, ammettendo che “invece, siamo entrati in una nuova era di dura competizione geostrategica”. La rappresentante europea conosce bene l’antipatia di Trump per il blocco dei 27, la sua architettura normativa e i suoi fondamenti liberali, e in antitesi con il nuovo inquilino della Casa Bianca ha quindi esaltato la centralità dell’accordo sul clima di Parigi (da cui Trump ha intenzione di uscire, di nuovo) e celebrato i recenti accordi commerciali che l’Ue ha stretto con il Messico e il Mercosur. E, per lanciare un ulteriore messaggio, ha teso la mano a Cina e India, attori globali in ascesa, percepiti da Washington come pericolosi concorrenti: “Il 2025 segna 50 anni di relazioni diplomatiche della nostra Unione con la Cina – ha detto von der Leyen – La vedo come un’opportunità per impegnarci e approfondire la nostra relazione e, ove possibile, anche per espandere i nostri legami commerciali e di investimento”.

Al suo interno però, l’Unione è divisa su come affrontare la ‘questione Trump’. Se alcuni leader criticano apertamente il tycoon e le sue tendenze neo-imperialiste, altri sembrano più propensi a stemperare i toni in nome di una realpolitik che imporrebbe di non andare allo scontro con la principale superpotenza globale. Così mentre Donald Tusk, ex presidente del Consiglio europeo e oggi premier polacco, ha esortato l’Europa a “rialzare la testa”, Olaf Scholz, cancelliere tedesco dimissionario impegnato in una difficile campagna elettorale in vista del voto del 23 febbraio, ha chiarito: “Gli Stati Uniti sono il nostro alleato più stretto al di fuori dell’Europa e farò tutto il possibile per garantire che rimanga così”. Tra tutti, però, è stato il socialista spagnolo Pedro Sanchez a pronunciare le parole più dure contro Trump e Elon Musk, incitando il blocco dei 27 a “difendere la democrazia” dalla “tecnocrazia della Silicon Valley”, che “sta cercando di usare il suo potere onnipotente sui social network per controllare il dibattito pubblico e, di conseguenza, l’azione di governo”. Quella che l’Europa si trova ad affrontare non è niente di meno che “una sfida esistenziale” anche per la presidente della Bce, Christine Lagarde, secondo cui dopo le parole di Trump, l’Europa deve essere pronta ad un colpo di reni e reagire. Sulla stessa linea anche il Commissario Ue per l’Economia, Valdis Dombrovskis: “Gli Usa sono un importante partner strategico – ha detto – ma è chiaro che siamo pronti a difendere i nostri valori e i nostri interessi se sarà necessario”.

C’è molto in gioco per entrambe le parti”, afferma la Von der Leyen. In ogni caso, per la leader dell’esecutivo europeo – confermata a luglio per un secondo mandato – l’Europa deve cambiare marcia perché il mondo sta cambiando. “Negli ultimi 25 anni, l’Europa ha fatto affidamento sulla crescente ondata del commercio globale per guidare la sua crescita. Ha fatto affidamento sull’energia a basso costo dalla Russia. E l’Europa ha troppo spesso esternalizzato la propria sicurezza. Ma quei giorni sono finiti”, ha avvisato. “Le regole di ingaggio tra le potenze globali stanno cambiando. Non dovremmo dare nulla per scontato”. Ha perfettamente ragione, in quanto a cosa accadrà con il Trump scatenato non si può prevedere, essendo questo personaggio una sorta di Fregoli che, dall’alto del suo “trono”, pretende che tutti si adeguino ai suoi desiderata. Un punto cruciale della sua politica è quello che riguarda la NATO, nella quale lui non vuole che entri a far parte l’Ucraina, e che minaccia di abbandonare se gli Stati europei non cominceranno a destinare il 5% del loro Pil al mantenimento di questa struttura che per 80 anni ci ha protetti dall’aggressione sovietica e che il Trump furioso minaccia adesso di smantellare. Viviamo, quindi, un periodo di profonde incertezze, nel quale l’unica certezza per ora è che in un contesto mondiale, in cui stabilità sembra un miraggio, l’Europa dovrà fare i conti con l’idea di Trump, che, lungi dal voler costruire ponti, pare pronto solo a erigere barriere. E la Storia ammonisce: gli equilibri instabili possono rapidamente trasformarsi in conflitti.

2 commenti su “Il demolitore”

  1. Commento firmato

    Piuttosto fuori luogo le parole di Donald J. Trump che attribuisce a Zelensky la responsabilità (o parte di essa) del conflitto in Ucraina. In realtà, Zelensky si è limitato ad eseguire ordini che gli venivano impartiti da Washington – i vertici UE si sono semplicemente accodati al padrone – e Londra (compreso quello di far fallire dei negoziati che probabilmente avrebbero consentito a Kiev di mantenere sovranità formale sull’est del Paese, non sulla Crimea sicuramente). A questo riguardo, mi preme ricordare che nel momento in cui lo stesso Zelensky venne eletto, nel 2019, era Presidente proprio Trump (primo mandato). È cosa indubbia che non vi sia mai stata un grande affinità tra i due. Tuttavia, il Dipartimento di Stato USA, tramite l’Ukraine Crisis Media Center (ONG finanziata da NATO ed ambasciata statunitense a Kiev, tra gli altri), subito dopo l’elezione di Zelensky, rilasciò un comunicato in cui venivano letteralmente dettate le linee di politica estera e interna al nuovo Presidente ucraino (assai difficile che Trump non ne fosse a conoscenza). Tra queste si “imponeva” di non negoziare direttamente con Mosca; si “imponeva” di non modificare le leggi discriminatorie attuate da Petro Poroshenko contro le minoranze etnico-linguistiche in Ucraina; e si “richiedeva” che lo stesso Poroshenko (lui sì, in più che buoni rapporti con Trump) non venisse sottoposto a processo per corruzione.
    Inoltre, non dimentichiamoci che, nel corso della prima amministrazione Trump, è pure arrivato il riconoscimento di autocefalia all’autoproclamato patriarcato di Kiev da parte di Costantinopoli dietro lauti finanziamenti USA e pressanti spinte proprio di Poroshenko (cosa che ha portato allo scisma ortodosso tra Costantinopoli e Mosca).
    Senza considerare che l’aumento delle truppe USA nell’Europa orientale e nei Paesi baltici (sebbene oggi si preveda una loro riduzione) è iniziato proprio a cavallo tra l’ultima amministrazione Obama ed i primi mesi del precedente mandato trumpista (durante il quale gli USA hanno pure abbandonato il Trattato INF).
    Capisco che sparare a zero sul “povero” Zelensky adesso faccia comodo (ricorda molto il bullo che prende di mira il più debole della classe), ma le responsabilità della tragedia ucraina sono da attribuire in primo luogo alle ultime tre amministrazioni statunitensi.

    1. Le sono molto grato del suo articolato commento, che mostra una profonda conoscenza dei temi in argomento, e dal quale trarrò ulteriori spunti di riflessione. Mi complimento con lei per l’analisi che ha fatto del mio articolo. Sergio Pollina

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