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Se domandassimo al “popolo” se volesse che le guerre — tutte le guerre — cessassero, la risposta sarebbe con quasi assoluta certezza un sonoro “sì”. Allora, perché non finiscono dato che, nelle democrazie, il popolo è definito “sovrano”, e che la nostra Costituzione, all’articolo 1, recita proprio: “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”? La risposta è di una chiarezza solare: la fola della sovranità popolare è, per l’appunto, nient’altro che una fola. Basta leggere i titoli dei giornali per rendersene conto: “Trump ha deciso che la guerra deve finire”, “Putin vuole il cessate il fuoco”, “Netanyahu minaccia la ripresa delle ostilità contro Hamas”, ecc. Come abbiamo scritto di recente, sono sempre e solo un manipolo di persone che prendono le decisioni che poi influiranno sulla vita di milioni di altri. La democrazia, nel suo significato originale di “governo del popolo”, è ormai diventata un’espressione pressoché priva di significato.
Probabilmente sarebbe più appropriato definire la sovranità del popolo una “sovranità limitata”, attingendo al titolo di un noto saggio di Luciano Canfora (Laterza, 2023), il che è un ossimoro perché l’aggettivo annulla il sostantivo. O si è sovrano o non lo si è. E sembra proprio che non lo si sia, anche se ci si sforza di illudersi di esserlo. Un segnale preoccupante, se ci riferiamo al nostro Paese, è la sempre maggiore irrilevanza del Parlamento, che dovrebbe essere l’istituzione maggiormente rappresentativa delle istanze dei cittadini, e che viene regolarmente scavalcato da decreti legge che assumono valore di atto normativo anche in assenza dell’approvazione del Parlamento. Ma c’è un altro elemento da tenere in seria considerazione, e cioè che, paradossalmente, il vero nemico del popolo non è la democrazia (ovviamente) ma quel movimento presente a livello mondiale che proprio dal popolo trae il nome, e cioè il populismo. Il populismo è incarnato in maniera assolutamente fedele da ben noti personaggi della scena politica mondiale, al primo posto fra i quali vi è Donald Trump, il populista per eccellenza, cosa che, in un paese apparentemente di sempliciotti come l’America, gli ha consentito per ben due volte di assurgere al più alto scranno della politica.
Yascha Mounk, autore di molti interessanti saggi sull’argomento, parlando del populismo fa questa pertinente considerazione: “Pur avendo una componente realmente democratica, nel lungo periodo il populismo è anche molto più contrario al rispetto della volontà popolare di quanto non sostengano i suoi fautori” (Popolo vs Democrazia. Dalla cittadinanza alla dittatura elettorale, Feltrinelli 2018). Secondo Ivan Krastev, poi, il populismo non è solo antiliberale, è antidemocratico: “l’ombra perenne della politica rappresentativa”. Continua Mounk: “Per capire la natura del populismo, dobbiamo riconoscere che è sia democratico sia illiberale, che cerca cioè di esprimere le frustrazioni della gente, da un lato, e di indebolire le istituzioni liberali dall’altro … Una volta che i leader populisti si sono sbarazzati di tutti gli ostacoli liberali che impediscono l’espressione della volontà popolare, diventa molto facile per loro ignorare il popolo quando le sue preferenze cominciano a entrare in conflitto con le loro”.
Il populismo affascina il popolo perché contiene la promessa che, finalmente, tutti gli impedimenti, gli ostacoli, le burocrazie, le tasse, che impediscono il conseguimento del benessere, saranno loro concessi se solo sostengono chi glielo promette. Questo è il “segreto” della duplice vittoria di Trump, il magnate del populismo, della cui vera essenza ci si è accorti troppo tardi. Continua ancora Mounk: “Donald Trump invece, si è sempre impegnato a truffare la gente … Delle politiche per cui si batteva, la maggior parte non avrebbe mai funzionato. Ha sfruttato la rabbia verso gli immigrati, promettendo di costruire un muro sul confine con il Messico, e sfruttando l’angoscia per il declino delle città industriali promettendo di aumentare i dazi doganali sulle importazioni dalla Cina e da molti altri paesi”. Promesse irrealizzabili, secondo gli esperti, eppure milioni di elettori hanno considerato la semplicità delle proposte di Trump come un segno della sua autenticità e determinazione, mentre la complessità — ed il realismo — delle proposte dei suoi competitori sono state considerate come un segno della loro insincerità e indifferenza. Proprio per questo, le soluzioni superficiali e semplicistiche sono al centro del fascino del populismo. Gli elettori non amano sentirsi dire che non esiste una risposta immediata ai loro problemi. Di fronte a politici che appaiono sempre meno capaci di governare e a un mondo sempre più complesso, molti sono sempre più inclini a votare per chiunque prometta una soluzione semplice (che poi non sia realizzabile è un dettaglio). Non possiamo non notare l’abissale differenza che esiste fra gli elettori moderni, che con la loro immaturità democratica hanno contribuito all’esplosione di questo fenomeno populista, e quella degli elettori — per esempio britannici, di ottant’anni fa che credettero a chi non prometteva cose semplici e immediate, ma, piuttosto, a chi gli prometteva, “lacrime, sudore e sangue”, cioè la realtà che li attendeva (insieme alla vittoria finale).
Ma la nostra sovranità non è limitata soltanto in quanto cittadini che non hanno praticamente voce in capitolo per tutto ciò che riguarda le decisioni che li riguardano; la limitazione della nostra sovranità, sia come nazione che come Unione Europea, emerge con chiarezza in questi ultimi giorni nei quali stiamo assistendo a una trattativa bilaterale fra due giganti, gli Stati Uniti di Trump e la Russia di Putin, avente come oggetto la sorte dell’Ucraina che, non dimentichiamolo, è un paese europeo, del quale stanno decidendo due nazioni che europee non sono e che tengono in assoluto non cale l’Unione, che ai loro occhi non è un interlocutore da tener presente. Circa ciò che sta accadendo a livello geopolitico, sono estremamente interessanti i commenti del politologo francese Dominque Moïsi, secondo il quale: “L’Europa ha davanti una sfida esistenziale. Siamo di fronte a una doppia minaccia. Quella russa che è strategica, geopolitica classica, e quella americana, con la tentazione del disprezzo per la democrazia … Per la prima volta dal 1941, l’Europa è sola di fronte al proprio destino. Non c’è più l’America pronta a salvarla. In modo simbolico, Trump suggerisce di incontrare Putin non in Europa ma in Arabia Saudita”. In poche parole il Presidente americano sta dicendo a noi europei: “Se vi interessa l’Ucraina, occupatevene voi”. Ma l’Europa è più sola che mai, in un momento in cui è divisa più che mai. Il motore franco-tedesco è doppiamente in crisi. Il Regno Unito è uscito dalle UE. Non sono né l’Italia, per la sua vicinanza a Trump — che considera la nostra Meloni una sua “vassalla felice” —, né la Polonia, per la sua volontà di difendersi a causa della eccessiva vicinanza geografica con la Russia, a poter trascinare il resto della UE, non sottovalutando anche il ruolo disgregatore che da tempo sta esercitando l’Ungheria con il premier Orbàn, sostenitore dei sovranisti europei che partecipano a questa spinta per distruggere l’UE. Ci troviamo di fronte ad una svolta epocale, in quanto, come continua Moïsi: “Dobbiamo essere consapevoli della radicalità di ciò che sta accadendo. Nel giro di una telefonata di 90 minuti, la Russia è passata da Stato pària dell’invasione dell’Ucraina a partner accettabile, e addirittura desiderato dalla prima potenza mondiale, gli Stati Uniti. L’Europa è assente”. Trump disprezza l’Europa al punto che attribuisce più importanza, interesse e rispetto per i suoi avversari che per i suoi alleati. In Putin ritrova il suo modo di operare, mentre disprezza quello dei paesi dell’UE. Per lui essa è il mondo di ieri”. La sovranità europea, e con essa quella dei singoli paesi che la compongono è ormai semplicemente una parola. Noi europei siamo gli ultimi nostalgici del diritto, del rispetto degli accordi, dei trattati. Tutto questo è superato. Siamo entrati nel mondo della legge del più forte e sono tre i protagonisti che capiscono cosa c’è in gioco: l’America, la Russia e la Cina. Noi no. Ma non è ancora troppo tardi, e sarebbe veramente opportuno che, stando così le cose, sia appropriata l’esortazione di Timothy Garton Ash, saggista e giornalista britannico: “Ora l’Europa batta un colpo”. L’occasione per farlo ci è data dalla conferenza di Monaco sulla sicurezza, dal 14 al 16 febbraio, nella quale Trump propone che siano gli Stati Uniti e la Russia a decidere le sorti dell’Ucraina, con un coinvolgimento marginale, se non nullo, della stessa Ucraina e di altri Paesi europei. Essa invece deve segnare l’inizio di una decisa risposta europea. Dobbiamo dimostrare di avere imparato dalla nostra tragica storia per evitare di ripeterla. C’è infatti un’enorme differenza fra l’Europa delle conferenze di Monaco e Jalta (dove nel 1945 si decisero le sorti del mondo da parte di tre soli personaggi: Churchill, Stalin e Roosevelt) e l’Europa odierna. Oggi l’Europa è ricca, libera, democratica, ed è una comunità di partner e alleati strettamente integrata. È vero, è indecisa e confusa riguardo al modo migliore di procedere sull’Ucraina, tuttavia con una coalizione sufficientemente determinata di Paesi volenterosi e capaci, fra i quali dovrà senza dubbio esserci il Regno Unito, l’Europa può ancora permettere all’Ucraina di stabilizzare la linea del fronte, di resistere economicamente e di arrivare a un negoziato da una posizione di forza e non di debolezza. Per questa ragione la Conferenza di Monaco sulla sicurezza deve segnare l’inizio della risposta europea alla Monaco di Trump.