Speriamo!

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Alba (foto di G. Capuano)

È così confortevole poter vivere nel riparo della nostra casa, circondati da oggetti che ci sono familiari, da persone che ci vogliono bene, seguire una routine quotidiana che ci dà un senso di stabilità, di conforto, poter decidere cosa vogliamo fare senza dover chiedere il permesso a nessuno e continuare a sperare che la nostra vita possa continuare a scorrere così, senza scossoni, fino alla sua fine naturale. Vivere, per così dire, protetti in un guscio di noce, come del titolo di un celebre libro di Stephen Hawking, cercando di ignorare ciò che accade nell’universo mondo che ci circonda. Credo, senza tema d’essere contraddetto, che questa sia la vita che la maggioranza delle persone viventi su questa terra desidera per sé e per i suoi cari ma, purtroppo, se questo è il nostro desiderio, siamo nati sul pianeta sbagliato. E questo richiama alla mia mente un verso del nostro Sommo Poeta che descrisse la terra come “l’aiuola che ci fa tanto feroci” (Paradiso XXII, 151). Sì, purtroppo, il mondo in cui viviamo, disperso in uno spazio infinito che non saremo mai in grado di sondare pienamente, non è altri che una piccola aiuola nella quale, da sempre, prevale la ferocia. Queste parole hanno ormai sette secoli, a dimostrazione che il trascorrere del tempo non ha cambiato nulla nella natura umana, poiché esse andavano bene per i sette secoli o millenni o eoni del passato, e andranno bene anche per i secoli che seguiranno al nostro, se prima l’uomo non avrà trovato il modo di distruggere quest’aiuola, non più fiorita, ma disseminata di morte. Il moltiplicarsi dei conflitti, delle contrapposizioni, dei dissidi che lacerano il mondo fa ringraziare quel ciascuno di noi descritto all’inizio, di poter essere uno dei pochi che possono vivere in un angolino dell’aiuola sperando che il mondo esterno non vi faccia mai irruzione.

E questo perché in questo momento e in tutti i momenti precedenti — e probabilmente anche seguenti — fuori dal nostro rifugio, miliardi di persone sono alla ricerca delle stesse cose, ma già sanno che non le otterranno mai, perché il mondo è un vero e proprio carnaio e anche se facessimo degli sforzi immani nella ricerca di un secolo, o anche solo di un decennio in cui “l’aiuola” non è stata teatro di ferocia indicibile, perderemmo inutilmente il nostro tempo. Nel mito biblico, la violenza nasce con i primi esseri umani posti da un dio onnipotente (?) sulla terra “per coltivarla e averne cura”; nella realtà storica essa non nasce, ma è connaturata in tutte le specie viventi, la cui sopravvivenza è condizionata dalla morte dell’altro, sia essere umano che animale. Infinite sono le tracce lasciate dai nostri predecessori che dimostrano come violenza, guerra, sterminio, atrocità sono la cifra che ha sempre accompagnato l’evoluzione della specie umana, del cosiddetto “Homo Sapiens”. Perché le cose dovrebbero cambiare proprio oggi, a cinquemila anni di distanza dalla nascita delle prime civiltà, ma a milioni di anni dalla venuta all’esistenza di tutte le specie viventi che hanno calpestato il suolo di questo pianeta, combattendosi le une contro le altre? Di cosa abbiamo bisogno per renderci conto che, se è vero che “la pietà l’è morta”, è morta anche la speranza. C’è qualcuno che, seguendo le cronache quotidiane provenienti da ogni parte dell’orbe terracqueo, può ignorare che milioni di nostri simili, che avrebbero anche loro il sacrosanto diritto di vivere in pace e sicurezza, sono quotidianamente sottoposti a crudeltà inenarrabili, alla privazione anche delle cose più elementari ma necessarie per la sopravvivenza, come il poter trovare un riparo confortevole, del nutrimento, degli abiti per difendersi dal freddo. E tutto questo non scaturisce dalla volontà perversa di qualche divinità malvagia che ci sovrasta e che può disporre come vuole delle nostre vite, della nostra esistenza. No, tutto ciò che di abominevole accade, accade perché uomini come noi, esattamente come noi, hanno preso con la forza, la forza del denaro, del potere, della sopraffazione, le nostre vite nelle loro mani e ne fanno ciò che vogliono. E non c’è spiraglio all’orizzonte, non un indizio che le cose possano cambiare.

C’è gente in questo mondo che ha la ferma convinzione che dio esista, solo che non è il dio delle preghiere e che si adora nelle chiese, ma ha un nome conosciutissimo, si chiama dio denaro, un dio che rende onnipotenti i suoi seguaci, se, come abbiamo sentito in questi ultimi giorni, con il denaro si può tutto, perfino comprarsi una o più nazioni. Siamo ancora alle prime settimane della seconda presidenza di Donald Trump e, fin dai primi ordini esecutivi che egli firma a raffica, ci possiamo facilmente rendere conto dove ci porterà la sua megalomania, dato che, attualmente, è l’uomo più potente e più ricco (grazie a Elon Musk) del mondo. Così questo egoarca una mattina si alza e dice di volersi comprare la Groenlandia, il giorno dopo vuol comprarsi il canale di Panama e il giorno dopo ancora vuole annettersi il Canada. Ma le sue mire vanno ben oltre: adesso vuole comprarsi la striscia di Gaza, come se si trattasse di un terreno abbandonato, ottimo per i suoi gusti da palazzinaro, per poterne fare una nuova Costa Smeralda o Costa Azzurra, o qualunque altra cosa che porterà innumerevoli altri miliardi nelle sue capienti tasche. E i popoli cui la “striscia” appartiene? Niente paura, la sua mente fertilissima ha deciso che un po’ se li prenderà l’Egitto, un altro po’ la Giordania e il resto andranno in Arabia Saudita perché, come ha detto il “prescelto” ai capi arabi, “avete così tanta terra, che ve ne fate?” Per adesso gli è stato risposto picche, ma staremo a vedere. Dietro questi mega progetti immobiliari i milioni di persone che sono rimaste senza più niente al mondo e vegetano in condizioni insopportabili, sono considerati null’altro che merce, che può venire spostata da un luogo all’altro, priva del diritto di scegliere cosa fare della sua vita, e del diritto che dovrebbero avere in quanto esseri umani, di godere di quelle poche, ma importantissime cose che abbiamo indicate all’inizio di questo scritto.

In queste condizioni è veramente difficile, in particolare per chi ha una fede religiosa, continuare a mantenerla, perché sono venute del tutto a mancare le tre virtù cosiddette “teologali”, la fede, la speranza e la carità. La fede non è difficile perderla quando nessuna risposta, nessuna iniziativa, nessuna parola, gli proviene da parte di quel dio che gli è stato insegnato a venerare, e si pone invece il sempiterno problema della teodicea, cioè come si può conciliare l’esistenza di un dio sommo bene con la malvagità imperante da sempre sulla terra. La carità (o amore) è una qualità o un sentimento che nelle condizioni disumane in cui molti sono costretti a (sopra)vvivere non ha più spazio per manifestarsi. Rimane la speranza, appropriatamente chiamata “spes ultima dea”.

All’argomento della speranza, hanno dedicato un volume meritevole d’esser letto due autori ben noti: Paolo Flores D’Arcais e Vito Mancuso. Il primo filosofo ateo e il secondo teologo credente, che si sono confrontati in un testo intitolato Il caso o la speranza? Alla fine del loro dibattito nessuno dei due ha convinto l’altro, ma le loro argomentazioni a sostegno delle loro tesi valgono la pena di essere valutate. A me ha colpito particolarmente una frase di D’Arcais, secondo il quale “Come ho ripetuto più volte nelle nostre cellule (e nel cosmo) non è impresso alcun DNA morale. Ma se proprio vi fosse scritto qualcosa, dovremmo ammettere che è la morale della sopraffazione, non quella della regola d’oro”. I fatti e la storia sembrano dar ragione alle tesi del filosofo non credente, che non si rifugia nella speranza, come invece fa il suo avversario dialettico, per il quale è alla speranza di un mutamento che dobbiamo affidarci perché vi è qualcosa di superiore all’essere umano, lo si chiami come si vuole, ma la cui funzione è di dare un senso alla vita. Funzione che in questo tragitto terreno non è dato sperimentare, ma che, proprio perché destinata a rivelarsi nel futuro, si chiama “speranza”.

Ed è ad essa che, come ultima ancora, tutti dovremmo aggrapparci per non sprofondare nel nichilismo e nello scoramento che incombono sulle nostre vite ogni qualvolta ci rendiamo conto che le nostre speranze sono rimaste disattese, e in tal caso dovremmo ricorrere ancora una volta a Dante, con il suo “lasciate ogne speranza voi ch’intrate”. Lui riferiva queste sue parole all’ingresso nell’inferno, ma poiché l’inferno non esiste, come non esiste il paradiso, il “lasciate ogni speranza” non può che riferirsi a chi, a oltranza, continua a credere e sperare in un cambiamento. Ed è a queste persone che si nutrono di questa illusione chiamata “speranza” che facciano i nostri più fervidi auguri, sperando che siamo noi a sbagliarci.

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