
Nell’Italia permissiva della fine degli anni ‘70 dello scorso secolo ebbe una discreta diffusione (toccò le 140.000 copie, ben più di quelle di certi attuali giornalacci di destra) una rivista satirica che si ispirava al già famoso “Canard énchaîné” parigino la cui irriverenza non risparmiava niente e nessuno, neppure l’allora presidente francese Valery Giscard D’Estaing. Il fondatore, Pino Zac, lo chiamò “Il Male” e dalle sue pagine uscirono le più truculente e talvolta repellenti battutacce, capaci però di sovvertire il senso comune, quindi di intrigare la parte più disincantata degli intellettuali. Al “Male” si deve, a riprova del cinismo insito nella satira, la pubblicazione di un inserto nel quale appariva la foto di Moro, allora ostaggio delle Brigate Rosse, in maniche di camicia, commentando la cosa con uno dei più noti slogan pubblicitari dell’epoca: “Scusate, abitualmente vesto Marzotto” (rinomata fabbrica di tessuti per abiti da uomo).
Ma aldilà del tono spregiudicato e del nonsense portato all’estremo, ciò che non sfuggiva ai lettori più attrezzati e che può essere compreso anche oggi, è che il titolo stesso del giornale altro non era che una ironica provocazione: il “male” assoluto, astratto, non esiste. Ed è questa la tesi adombrata in alcune delle mie paginette pubblicate su questo giornale. Questo richiamo ad una visione laica dell’esistenza umana che rifiuta la presenza del “male” non solo come entità astratta circolante a suo piacimento sulla faccia della terra sin dall’alba dell’umanità, ma anche come malvagità connaturata ad una parte per fortuna minoritaria degli esseri umani, i cosiddetti “cattivi”, si rivela utile, e forse anche consolatoria, in un’epoca in cui sia la politica che la società sembrano travolte da un’onda nera. È come se l’area individuale – un tempo occupata dal “bene”, dai buoni sentimenti, dalla legalità, dalla solidarietà, dalla giustizia – sia stata invasa da femminicidi, parricidi, accoltellamenti e da altri assurdi crimini spesso commessi nella consapevolezza di essere beccati se non addirittura nella programmata autoeliminazione: una sorta di “cupio dissolvi” che testimonia l’inadeguatezza del presente e l’assenza di un futuro degno di essere affrontato. Quando si passa poi ad osservare il comportamento di chi si affanna a governare il mondo, le considerazioni non sono molto diverse: sul primordiale impulso all’aggressività che, ci dice la Scienza, permane tuttora nella zona più interna e arcaica della corteccia cerebrale, impulso teso a difendersi dai pericoli, a procacciarsi il sostentamento e a conservare la specie, si sono innestate strutture ideologiche che portano ben aldilà della difesa della propria vita ma mirano alla conquista del potere nelle sue varie accezioni: espressione della propria superiorità, voglia di possedere, ergersi a protagonista di missioni storiche eccetera. Ma lascio volentieri l’approfondimento di queste pur delicate ed essenziali ricerche a chi sa di storia, di antropologia, di psicologia sociale più di quanto non ne sappia io, che mi considero un nomade della cultura senza fissa dimora: quanta follia sia presente nelle contorte personalità di Hitler, di Stalin, di Mussolini e di tutti i dittatori che li hanno preceduti e dei tanti epigoni che circolano ancora a piede libero, non potrà mai superare l’impulso omicida di chi ammazza l’automobilista da cui ritiene di aver ricevuto un’offesa altrimenti irreparabile. È sempre e comunque follia.