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Un antico detto napoletano recita: “peggio ‘na capa rìgnuta ca ‘na fattura fatta” per spiegare quanto il potere della persuasione costante abbia più effetto sull’uomo di un maleficio. Propaganda, termine iniziato ad usare proprio in Italia, nella Roma del XVII secolo, quando papa Gregorio XV fondò la Congregatio de Propaganda Fide per proteggere e diffondere la fede cattolica dalle eresie gianseniste. Ma è nel “secolo breve”, con l’avvento dei regimi totalitari, che la propaganda assume la connotazione moderna di strumento politico per manipolare le masse.
Il duce del fascismo, Benito Mussolini, comprese che il controllo dell’informazione e la creazione di una narrazione semplificata e accattivante erano essenziali per mantenere il potere. Da allora la propaganda è diventata una costante nella politica mondiale, superando confini e ideologie.
Il sociologo contemporaneo Zygmunt Bauman coniò il termine di società liquida per descrivere la condizione della società moderna, caratterizzata da instabilità, incertezza e continua trasformazione. Bauman usa la metafora della liquidità per contrapporre la modernità attuale alla “modernità solida” del passato. Nella società solida, le istituzioni, le relazioni e le identità erano più stabili e prevedibili, mentre nella modernità liquida tutto è mutevole, fragile e precario.
Pertanto l’uso indiscriminato della propaganda nella narrazione politica ha fatto breccia, connotando i governi di varia estrazione, da quelli dichiaratamente autoritari a quelli formalmente democratici, ma inclini alla demolizione dei pesi e contrappesi istituzionali. Trump, Netanyahu, Meloni, Putin: leader che, pur operando in contesti differenti, hanno fatto della comunicazione emotiva e dello scontro permanente la loro arma principale, sfidando le costituzioni e le istituzioni dei rispettivi paesi.
L’attuale Presidente USA ha adoperato la propaganda per delegittimare le istituzioni americane, insinuando brogli elettorali inesistenti e minando la fiducia nella democrazia stessa. L’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021 è stato l’inevitabile risultato di anni di narrazione populista, che ha trasformato il dissenso politico in una lotta apocalittica tra “patrioti e traditori”.
Benjamin Netanyahu, per preservare il proprio potere, ha alimentato un clima di paura e instabilità, spingendo Israele in una crisi politica e sociale senza precedenti. Ha sfruttato il conflitto con Hamas per rinforzare il suo ruolo di leader indispensabile, evitando processi per corruzione e reprimendo il dissenso interno con politiche sempre più autoritarie.
Giorgia Meloni ha ereditato e affinato la propaganda sovranista italiana, basata sulla contrapposizione tra un “popolo tradito e un nemico interno ed esterno”. Slogan semplici e diretti, spesso in contrasto con la realtà economica e sociale, hanno sostituito le politiche concrete. La crisi della giustizia, la denatalità, il precariato giovanile e la sanità al collasso sono ignorati in favore di campagne mediatiche e costose su migranti, sicurezza e identità nazionale.
Vladimir Putin, maestro della disinformazione, ha costruito il suo regime sulla repressione del dissenso e sulla narrazione di una Russia circondata da nemici. L’invasione dell’Ucraina è stata giustificata con una retorica nazionalista che ha trasformato l’aggressore in vittima, in un gioco di specchi che ha annichilito ogni residuo di opposizione interna.
La propaganda non si limita a ingannare: divide, esaspera, trasforma i problemi reali in armi politiche. E mentre i cittadini si scontrano su questioni spesso distorte ad arte, le vere emergenze – dal declino demografico all’erosione dei diritti, dall’indebolimento delle istituzioni alla crescente insicurezza economica – restano senza risposte.
Cui prodest? A chi giova tutto questo? Forse un proverbio partenopeo più prosaico può venirci in aiuto: ‘o cummannà è meglio do’ fottere.