Intelligenza e morale

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L’uomo è un animale intelligente, ci vien detto. Ma, cos’è l’intelligenza? Darne una definizione appropriata è un esercizio non facile. Una d’esse potrebbe essere la capacità di risolvere problemi, di adattarsi e di imparare dall’esperienza, oppure potrebbe essere la capacità generale di pensare razionalmente, di agire in maniera finalizzata e di adattarsi in maniera efficace all’ambiente. Vi sono molti altri aspetti che caratterizzano l’intelligenza e non stiamo qui a elencarli tutti, anche perché ogni individuo l’esprime in maniera diversa.

Alcuni potrebbero essere indotti a pensare che l’intelligenza sia associata all’agir bene, al compiere azioni meritevoli. Nulla di più sbagliato. Intelligenza e senso morale non sono due qualità che vanno necessariamente di pari passo e la storia del genere umano ci conferma che è così. Molto spesso, purtroppo, l’intelligenza è usata a fini distruttivi. Infatti, al suo impiego per dar vita a strumenti finalizzati al bene collettivo, come i farmaci che combattono le epidemie e le malattie in generale, insieme ad altri che rendono la vita più comoda e ci sollevano da fatiche che una volta ci stremavano, molto più spesso fa riscontro l’impegno all’ideazione di strumenti che vanno nella direzione del tutto opposta, come la costruzione di armi di distruzione di massa o la messa in opera di sistemi di vita che mettono a repentaglio addirittura la sopravvivenza della vita sul nostro pianeta. E ciò ci pone di fronte alla domanda: che intelligenza è quella messa a servizio del male e non del bene? Guardando le cose obiettivamente, potremmo trarne la conclusione che, come per tutte le cose, la sua valutazione dipende dall’uso che se ne fa. Un martello può servire a piantare un chiodo per uno scopo utile, ma lo stesso martello può servire come arma per uccidere.

Possiamo quindi affermare che, da sola, l’intelligenza rimane una facoltà piuttosto astratta, se non è associata ad altre qualità che le diano un senso. Si può fare l’esempio di uno scultore: ha di fronte a sé un blocco informe di marmo che, a seconda delle sue capacità, può essere trasformato in un capolavoro oppure in tutto l’opposto. Un’altra domanda potrebbe essere: l’intelligenza rende migliori o peggiori? Risolvere un difficile problema matematico rende migliori? Ricevere un premio Nobel per la letteratura fa di un autore una persona migliore? La risposta non può che dipendere dalla statura morale di quegli uomini e non dalla loro intelligenza; un grande scienziato può essere un uomo gretto e meschino, la cui intelligenza nel risolvere problemi di certo non lo rende migliore, così come una persona “comune” disponibile a prodigarsi per altri si rende encomiabile anche se non brilla per intelligenza. Quindi l’intelligenza rende migliori o il contrario se le associamo ad altre qualità che sono caratteristiche del singolo individuo.

Prendiamo, per esempio, quella rivoluzione moderna chiamata intelligenza artificiale (IA). È buona? È cattiva? Per il momento possiamo solo dire che è utile, ma l’utilità non è una caratteristica morale, né etica, essa è soltanto uno strumento più progredito che consente di trarre vantaggi a fini pratici e materiali, certamente non morali. Pertanto l’IA non è né buona né cattiva, e per stabilire se qualcosa lo è, dobbiamo fare uno o molti passi indietro per giungere al tempo in cui la specie umana “inventò” la differenza fra il bene e il male. Solo avendo chiari questi due concetti si può pervenire al conoscere la loro differenza ed esprimere un giudizio; impresa ardua perché sappiamo bene che due persone, osservando la stessa cosa, possono decidere che essa è un bene per l’uno ma un male per l’altro. Se chiedessimo a un credente cosa è bene per lui, a prescindere dal suo QI, non avrebbe esitazione nel rispondere che è bene l’ubbidienza alla legge di Dio in ogni aspetto della vita. Ma se rivolgessimo la stessa domanda ad un ateo, la risposta non potrebbe che essere tutt’altra. Eppure entrambi gli interrogati non potrebbero dissentire sul fatto che, se una certa azione reca benedici ad altri, se allevia le loro sofferenze, se li fa star meglio, se comporta vantaggi, è bene a prescindere dall’esistenza di un dio che lo codifichi per noi. Un dio per il quale, a mo’ d’esempio, lapidare a morte chi lavora in giorno di sabato è cosa buona e giusta, ma certamente non lo è per il malcapitato e per chi gli vuol bene. La schiavitù, di cui recentemente ci siamo occupati, è certamente un male per la persona privata della sua libertà, ma è un bene per il proprietario di schiavi, perché gli consente di lucrare profitti a basso costo e, inoltre, con l’approvazione di dio se è un lettore dell’Antico Testamento.

Un’altra considerazione da fare circa l’intelligenza non può prescindere dalla sua storia nel corso dei millenni, a partire da quando ebbe inizio la separazione del genere umano dai primati più prossimi (qualche milione di anni fa) e la nascita delle società complesse (poche migliaia di anni fa), storia che ha spinto Hanno Sauer a dire: “Sembra sempre più plausibile l’ipotesi che in origine il modo di vivere del genere umano fosse più che accettabile … quel lunghissimo periodo di tempo è stato caratterizzato da un sorprendente grado di  uguaglianza politica, materiale e sociale”. (Hanno Sauer, L’invenzione del bene e del male, Laterza, 2023). Se dovessimo, quindi, decidere quale fosse l’intelligenza degli uomini primitivi rispetto a quella dei cervelloni moderni, dovremmo concluderne che poiché essi furono in grado di costituire società fondate sull’uguaglianza fra i loro componenti, che con il tempo andò sempre più scemando, dovremmo concluderne che in quei cervelli primitivi si annidasse un’intelligenza più sviluppata e migliore di quella d’oggi perché non v’è dubbio che dall’intelligenza ci aspettiamo soltanto risultati positivi a dimostrazione di una superiore qualità morale; mentre l’intelligenza finalizzata al male non dovrebbe essere considerata tale.

Intelligenza e morale, binomio inscindibile, e la seconda di queste qualità deve prevalere sulla prima perché, come diceva Stefano Rodotà in Elogio del moralismo (Laterza, 2011): “Contro malaffare e illegalità servono regole severe e istituzioni decise ad applicarle. Ma serve soprattutto una diffusa e costante intransigenza morale, un’azione convinta di cittadini che non abbiano il timore d’essere definiti moralisti, che ricordino ogni momento che la vita pubblica esige rigore e correttezza”. E se ad esse si aggiunge anche un’intelligenza finalizzata al vantaggio altrui e non soltanto al proprio, allora si sono gettate le basi per una società più giusta e “morale”, dove l’essere definiti “moralisti” non è più una critica ma un riconoscimento. Dopo aver condiviso con Rodotà, e con le persone di sano discernimento, l’argomento della morale e della moralità, vogliamo adesso concludere con una panoramica sull’intelligenza, ad opera di Daniel Goleman, psicologo di fama internazionale, che così riassume il suo pensiero: “Perché le persone più intelligenti nel senso tradizionale del termine non sono sempre quelle con cui lavoriamo più volentieri o con cui facciamo amicizia? Perché il rendimento scolastico di bambini con una intelligenza brillante crolla in maniera drammatica in occasione di difficoltà familiari? Perché le persone assunte sulla base di classici test d’intelligenza si possono rivelare inadeguate alle esigenze che impone loro il lavoro? Perché un matrimonio può andare a rotoli anche se il quoziente intellettivo di entrambi i coniugi è altissimo? E non ci vuole intelligenza per stabilire una serena vita familiare? … L’intelligenza che governa settori così decisivi dell’esistenza umana non è l’intelligenza astratta dei soliti test, ma è una complessa miscela in cui giocano un ruolo predominante fattori come l’autocontrollo, la pervicacia, l’empatia e l’attenzione agli altri. In breve è l’«intelligenza emotiva»: quella particolare forma di intelligenza che ha consentito ai nostri lontani progenitori di sopravvivere in un ambiente ostile e di elaborare le strategie che sono alla base dell’evoluzione umana, e che può aiutare tutti noi ad affrontare un mondo sempre più complesso, violento, difficile da decifrare. L’intelligenza emotiva consente di governare le emozioni e guidarle nelle direzioni più vantaggiose; è la capacità di capire i sentimenti degli altri al di là delle parole; spinge alla ricerca di benefici duraturi piuttosto che al soddisfacimento degli appetiti più immediati. E — notizia confortante — l’intelligenza emotiva si può apprendere e perfezionare: imparando a riconoscere le emozioni proprie e quelle degli altri. Questo nuovo linguaggio delle emozioni si potrà così insegnare ai bambini, rimuovendo alla radice le cause di molti e gravi possibili squilibri dell’età evolutiva”. In sostanza il libro di Goleman ci aiuta a comprendere che questi obiettivi sono alla portata di tutti e che potremmo usare la sua opera per apprendere che intelligenti non si nasce, ma si può diventarlo! (Intelligenza emotiva, Daniel Goleman, Rizzoli, 1997).

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