Napoli, inverno 1656
L’odore dolce della morte si mescola a quello salmastro portato dal mare. La città giace in un silenzio irreale, rotto soltanto dal lamento dei moribondi e dal passo sordo dei carri che trasportano i morti di peste.
Nella sua casa, un uomo siede davanti a un grosso telero. Un pennello gli trema nella mano. La stanza è gelida e buia, ma non è il freddo dell’inverno a turbarlo, piuttosto un vuoto profondo, scavato dal dolore e dalla consapevolezza della fragilità dell’esistenza. Si alza lentamente, il cuore gravato, l’immagine del suo bambino composta sul catafalco funebre è indelebile nella mente.
«Il Cielo mi ha colpito duramente…», mormora alle ombre della stanza. Infatti l’epidemia di peste non aveva avuto pietà: gli aveva strappato non solo il suo piccolo Rosalvo, ma anche il fratello, la sorella e cinque dei suoi nipoti… Il suo lutto privato si univa a quello delle oltre duecentomila vittime del morbo. Il pittore si affaccia alla finestra in cerca di requie, ma ha davanti agli occhi una devastazione senza tregua: i cadaveri giacciono ovunque abbandonati lungo la strada di Toledo, calpestati dalle ruote dei carri. I monatti, reclutati tra gli assassini, si aggirano in questo squallore depredando i moribondi di ciò che il morbo gli ha lasciato.
«La Morte ha deciso di piantare la sua falce al centro di Napoli». Così dicendo, l’uomo volta lo sguardo inquieto, accende qualche candela e fissa gli occhi sulla tela davanti a sé. Ci si avvicina lentamente, sfiora con la mano il volto del bambino dipinto: «Rosalvo, piccolo mio, come sei bello figlio! Eppure, questa bellezza è un inganno. La vita, come le bolle di sapone che il putto soffia nell’angolo della tela, è fragile, un soffio che svanisce nel nulla.»
Fa un passo indietro osservando il gigantesco scheletro alato che domina la scena. «La Morte», pensa e una ruga gli si spiana sulla fronte, «Lei non conosce pietà, non risparmia nessuno… Guarda piccolo mio, come ti guida la mano, costringendoti a scrivere quelle parole: “Conceptio Culpa, Nasci Pena, Labor Vita, Necesse Mori” [Il concepimento è peccato, la nascita è dolore, la vita è fatica, la morte una necessità]. È questo il nostro destino? Una vita di peccato, dolore, fatica, e poi la fine inevitabile?»
Il pittore si passa una mano sul viso stropicciato, ha il respiro pesante. «Ma chi lo vorrà davvero intendere questo messaggio? Chi si soffermerà a decifrare i simboli? Forse solo chi avrà patito, sulla propria pelle, la spietatezza del destino».
L’artista lascia cadere il pennello, sposta lo sguardo sul bel volto dipinto di una donna. «E tu Lucrezia, mia amata; una volta fiorente come il giglio, ora sembri morire insieme a questa città, oltraggiata dalla sciagura! Il simbolo di un regno che si sgretola sotto il peso del flagello divino». D’improvviso l’uomo inizia a prendersi a schiaffi alzando la voce: «Ma non ero io “il buffone“, il poeta che riempiva la casa di risa? Lo stornellatore di mille ritornelli galanti? Non ero io quello che dileggiava i potenti facendosi beffe della loro pomposa e sciatta magniloquenza? Il formidabile spadaccino, il fedele amico del popolo in rivolta… Ora la mia casa è una tomba. Questo quadro, che mi ostino a dipingere mentre il mondo crolla, è il solo conforto, il mio dialogo di un folle con voi, miei amati perduti».
Raccoglie il pennello e torna al cavalletto. In basso a sinistra, con sapienti pennellate, definisce un bambino che soffia bolle di sapone. «Homo est bulla», pensò, ricordando la metafora sulla brevità della vita. Infine aggiunge nel registro destro della tela il volto di Terminus, dio romano della morte. La figura emerge dall’oscurità, immobile e fredda, silenziosa e inesorabile.
L’opera è finalmente compiuta. Un grido di dolore, un memento mori per chiunque si fosse fermato a contemplarla nei secoli a venire.
«Che questa tela parli per me», dice infine sussurrando a sé stesso: «Che racconti la fragilità dell’uomo e la crudeltà del destino. Ma che sia anche un’esortazione: nella caducità della vita, l’arte sopravvive. E in essa, forse, possiamo trovare un frammento di senso».
La luce delle candele vacillano proiettando ombre lunghe sulla tela e sui muri, il pittore approfitta di questo ultimo lucore per apporre la sua firma: Salvator Rosa si lascia cadere su una sedia, lo sguardo perso finalmente nel vuoto.