Davanti a milioni di italiani che lo hanno ascoltato con molta attenzione, il nostro Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha pronunciato un discorso esemplare, privo di enfasi e di retorica, soffermandosi sugli aspetti più pregnanti della nostra vita sia come nazione che come comunità. Fra i valori che animano la vita del nostro Paese, le attese delle persone, delle nostre comunità egli ha volutamente posto l’accento sul fatto che “essi si esprimono e si ricompongono attraverso l’ampia partecipazione dei cittadini al voto, che rafforza la democrazia; attraverso la positiva mediazione delle istituzioni verso il bene comune, il bene della Repubblica: è questo il compito alto che compete alla politica. Siamo chiamati a consolidare e sviluppare le ragioni poste dalla Costituzione alla base della comunità nazionale. È un’impresa che si trasmette da una generazione all’altra. Perché la speranza non può tradursi soltanto in attesa inoperosa. La speranza siamo noi. Il nostro impegno. La nostra libertà. Le nostre scelte”.
La partecipazione dei cittadini al voto, il momento culminante dell’ordinamento democratico, purtroppo, sembra sempre di più diventare evanescente, con una percentuale di elettori che in sempre minor numero si recano alle urne per decidere le sorti del loro paese. Non per nulla fra gli argomenti di rilevante importanza, il Presidente ha voluto inserire anche questo, perché è da questa partecipazione che si afferma e si consolida la democrazia. Che questa antichissima e onorabile istituzione stia attraversando, ormai da troppo tempo, un periodo di crisi, è sotto gli occhi tutti. La prova definitiva l’abbiamo avuta quando la più grande (?) democrazia del mondo, quella degli Stati Uniti, ha preso la cruciale decisione di eleggere per la seconda volta al soglio presidenziale un personaggio che, della democrazia, è la più evidente negazione. Abbiamo discusso ampiamente di Donald Trump di recente, e delle sue caratteristiche che ne fanno un personaggio non onorevole. La democrazia si afferma e si difende non con gli assalti inferociti di folle senza controllo al Campidoglio per ribaltare il risultato del voto democratico, ma ponendo la propria scheda nelle urne; si difende nelle aule dei parlamenti, nelle sedi delle istituzioni come la magistratura, i partiti politici, le libere associazioni di cittadini. Ma sembra che non sia più così se nel prossimo quadriennio l’America sarà guidata in primis da un oligarca plurimiliardario e megalomane al quale il neo presidente sarà indotto a dare ascolto, il quale nella sua scala di valori non ha certamente il benessere del paese ma il suo personale e l’appagamento della sua sete di potere e di controllo, che trasformeranno il suo paese in qualcosa di inedito cui nella sua storia bicentenaria non si è mai assistito. Governeranno gli algoritmi, la rete, i social, l’Intelligenza Artificiale, espropriando in tal modo il cosiddetto “popolo” del suo bene più prezioso e più grande: quello di decidere lui e non un gruppo ristretto di plutocrati la sorte della nazione.
Ma non è solo della crisi americana che vogliamo occuparci perché non è affatto la sola; come un esercito invasore in un regno addormentato, la crisi sta attraversando con facilità tutta l’impalcatura materiale, istituzionale, intellettuale della costruzione democratica che l’Occidente si è dato nella tregua del dopoguerra. Coinvolge governi, parlamenti, corpi intermedi, sociali, antagonismi, welfare state, partiti e movimenti nazionali, internazionali, continentali. Come a dire, tutto ciò che avevamo creato al fine di sviluppare e articolare il meccanismo della democrazia per proteggerci nel nostro vivere insieme. Oggi sappiamo che quel meccanismo da solo non ci difende, che la crisi lo penetra e lo deforma attraversandolo, e così facendo lo svuota. Scopriamo che professare la democrazia nelle forme e negli istituti non ci protegge, dunque non è sufficiente. La democrazia non basta a sé stessa.
Diventa ineludibile, allora, domandarci fin dove arriverà la mutazione che la crisi in atto porta con sé. Una crisi economico-finanziaria, se guardiamo al detonatore. Ma crisi politica, istituzionale, dunque culturale, se misuriamo gli effetti quotidiani che si possono riassumere così: il governo democratico è precario perché tutto è fuori controllo. L’Italia, insieme a molti paesi europei coltivò a suo tempo un grande sogno che è poi divenuto realtà: quello di un’Europa unita e solidale, che avrebbe bandito i nazionalismi e le gelosie nazionali. È la visione che Altiero Spinelli ha dell’Europa nel 1941 quando scrive, con Ernesto Rossi, “Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto”. L’intellettuale italiano nel pieno della Seconda Guerra Mondiale, confinato dal regime fascista a Ventotene, piccola isola dell’arcipelago pontino, scrive quello che passerà alla storia come il Manifesto di Ventotene, testo riconosciuto alla base del processo di unificazione dell’Europa in senso federalista. E dopo tante tappe intermedie, finalmente nel 1972 a Maastricht il 7 febbraio, viene firmato il nuovo Trattato. Quella che fino ad allora era stata comunemente indicata come Cee (Comunità economica europea) diventa Unione europea (Ue). I trattati firmati nella città dei Paesi Bassi definiscono anche precise norme relative alla moneta unica, alla politica estera e di sicurezza e alla più stretta cooperazione in materia di Giustizia e Affari interni. L’Unione europea uscita dai Trattati di Maastricht non è dunque soltanto la somma delle tre Comunità storiche (Cee, Ceca e Euratom), ma anche un ampliamento delle competenze in diversi e importanti settori. Ad esso fanno seguito una lunga serie di trattati aggiuntivi che finiranno con il dare all’Unione Europea la sua forma definitiva, facendone così una grande potenza economica, ma non solo, facendone anche il nucleo di un nuovo modo di intendere la politica, priva dei desueti arnesi del passato. Ciò che, invece, sta accadendo in essa, a tutti i livelli, ci impone di porci la domanda se stiamo veramente prendendo coscienza di dove questo “sogno” sta andando, che direzione sta prendendo e se si sta infrangendo. Forse non siamo più capaci di una pubblica opinione pur facendo un gran commercio gratuito di opinioni private ridotte in pillole e lanciate ovunque tra mille tweet al giorno, pur immersi in un mare di commenti e di spezzoni di giudizio trasformati in battute, calembour, invettive, aforismi. Poiché la democrazia è sotto attacco — e di questo oggi si tratta — dobbiamo chiederci se essa sia ancora capace di pensare a se stessa, se sia in grado di ripensarsi per reinventarsi e riconquistare il governo effettivo e reale. D’improvviso ci sentiamo vulnerabili: a livello individuale, singolarmente, e tutti insieme in quanto nazione, anzi in quanto specie umana.
La realtà attuale è che i cittadini, in generale, non si sentono più efficacemente protetti dai loro governi, perché è proprio dal sistema democratico in quanto tale, cioè da quella rete di istituzioni inventate con genialità e costruite con fatica dai nostri padri, che un numero sempre maggiore di loro figli e nostri contemporanei si sentono traditi e delusi. La manifestazione più terribile di questa frustrazione è la crescente distanza fra quelli che votano e quelli che dal loro voto vengono insediati al potere. Gli elettori si fidano sempre meno delle promesse che fanno le persone che essi stessi eleggono a governare; amaramente sconfessati dalle promesse mancate dei politici precedenti, difficilmente possono aspettarsi che questa volta le promesse vengano mantenute. Sempre più spesso gli elettori scelgono fra le varie proposte, guidati più dalle vecchie abitudini che dalla speranza che il loro voto produca un cambiamento delle cose. Nella migliore delle ipotesi si recano alle urne per scegliere il male minore. Siamo quindi di fronte ad una insicurezza politica, prima di tutto a una solitudine politica, a una incomunicabilità politica, e questo perché ci rendiamo tristemente conto che la nostra partecipazione o il nostro rifiuto a partecipare avranno esattamente lo stesso effetto — cioè nessuno — sulle cose che ci stanno veramente a cuore. Sentiamo che qualunque cosa facciamo non incide minimamente. Gente che va, gente che viene da Montecitorio, da Palazzo Chigi o da Palazzo Madama; ma chiunque venga e dovunque vada, niente cambia nella nostra vita e nelle nostre prospettive.
Questo è anche la conseguenza del fatto che il personale politico attuale, europeo e mondiale, spesso è costituito da dilettanti di talento contro i professionisti della politica, come un outsider pronto a conquistare più che a governare, a comandare più che a rappresentare istituzioni che disprezza, mentre i politici intorno a lui (o a lei) sfoggiano l’ignoranza come prova di autenticità e di estraneità al sistema, una specie di certificato di innocenza. E ne abbiamo la patente certezza se ci riferiamo al personaggio citato in precedenza. Il politico che viene dall’antipolitica chiederà presto di essere liberato dall’impaccio di controlli e procedure e le additerà come una ragnatela che imprigiona la potestà dell’eletto e limita il fulgore della sua leadership. Come giudicare un “capo” di una nazione di più di 9 milioni di chilometri quadrati e più di trecento milioni di cittadini che aspira a comprarsi l’intera Groenlandia, ad appropriarsi del canale di Panama e di fare del Canada il 51mo stato della federazione, se non un megalomane, con tanti capitali a sua disposizione (vedi Musk) da sentirsi al di sopra di tutto e di tutti?
Prima di chiudere ci piace citare un interessantissimo saggio di Michele Ainis, Demofollia, (La chiave di Teseo, 2019) nel quale si afferma: “Ogni Stato è un’impalcatura che serve a imbrigliare le passioni. Se l’impalcatura crolla, le decisioni collettive diventano per lo più emotive, contraddittorie, irragionevoli nel loro bilancio complessivo. E il seme della follia si impadronisce della cittadella pubblica, della stessa vita democratica. Forgiando una nuova forma di governo, o meglio di non governo: demofollia, chiamiamola così”. Chiudiamo con una domanda per la quale al momento non abbiamo risposta: dove dunque possiamo approdare noi, gente preoccupata per lo stato deplorevole della democrazia e per la sempre più evidente impotenza delle istituzioni fondate nel suo nome? Con la politica ridotta a show, i cittadini ridotti a spettatori, il discorso politico ridotto a occasioni per foto di gruppo dei politici, e con la battaglia di idee ridotta a competizione fra spin doctors?