In trappola

tempo di lettura: 5 minuti
Foto di A. Sacco

È strano scoprire che, se solo mi baso su quello che vedo intorno a me, ho come la sensazione che mi sia precluso l’ascolto di cose altre o di interi mondi interiori. Devo confessare che la mia capacità di attenzione alla complessità in cui sono immerso, come lo spazio urbano, una strada della mia città, mi sembra ormai compromessa, sento l’urgente bisogno di fermarmi, chiudere gli occhi per un istante e prestare ascolto a ciò che, per mio limite, non riesco più a sentire. 

Guardo l’orario impresso sul mio smartphone, sono le 19 e 45 e sono seduto da solo sulla scalinata monumentale del Museo Archeologico Nazionale. Fermo, ascolto l’irrefrenabile suono del traffico impazzito che mi si manifesta dinnanzi, centinaia di auto che lottano per avanzare e divincolarsi da una enorme trappola metallica che cambia forma, si muove lenta, a strappi, non priva di un affascinante spettacolo di luccichii e colori. D’improvviso il sibilo di una sirena, dal suono via via sempre più incalzante, come un dardo scoccato da chissà quale ignota regione attraversa lo spazio, avvisando che una auto-ambulanza deve passare, bloccata come gli altri nella trappola, lancia il suo grido di allarme, di reciproco soccorso, di fare spazio, di lasciarla andare via per rincorrere una speranza di vita, di aiuto, il tempo che passa veloce è il suo principale nemico da sconfiggere. La lotta per divincolarsi, avanzare è dura, fare presto, nel disperato tentativo di passare davanti a tutti e tutto si trasforma in una aberrante melodia sincopata, dal ritmo estraniante insieme al coro delle auto che con i loro clacson impazziti si aggiungono in questo sinistro canto, il loro rumore, un infernale concerto.

Una sinfonia polifonica, con un messaggio disperato comune, tutti insieme suonano, urlano, ognuno col desiderio di passare, ma sono tutti fermi, saltate sono le regole di comportamento c’è solo l’esasperata volontà di andare via, verso la libertà dalla trappola, il caos è il nume tutelare che la presiede. Immagino così che il suono dissonante, fastidioso si espanda nell’aria fino ad impregnare le mura degli edifici  attraversarne le volte, infilandosi lungo le scale, nelle aperture delle finestre dei piani, arrivando persino a violare la quiete teoricamente protetta dalle mura domestiche, per un istante mi attraversa lungo la schiena un sentimento di paura, il potere del suono è così grande che si narra nella Bibbia che riuscì a far crollare con il suono delle trombe le potenti mura della città di Gerico. Così nel timore decido di riaprire gli occhi e, nella immediatezza della visione, la mia attenzione viene catturata dalla scena di un uomo che cerca anche lui di divincolarsi tra l’ingorgo di auto ma con le mani protese alle orecchie cercando di proteggersi da tale infernale frastuono, deve fare molta attenzione perché. pur attraversando la strada sulle strisce, esiguo corridoio di sicurezza deputato a tutelare il sacro pedone, rischia di essere travolto, investito, nella frenesia del duello fra le auto che si manifesta in continue, nevrotiche accelerazioni per conquistare piccoli spazi dove infilarsi e finalmente passare. La macchina in questa visione sembra avere la precedenza sull’inerme uomo-pedone, la legge del più forte, del più veloce decreta la lentezza un intralcio, nella disperata lotta per andare avanti.

Un si salvi chi può dove volano insulti, vaffa e con essi anche diritti e doveri di quello che viene definito codice della strada, ovvero le regole condivise del vivere civile, dove il più debole dovrebbe essere tutelato e quasi sempre avere priorità nel movimento.

Respiro con difficoltà, l’aria è diventata ora irrespirabile, piena di monossido di carbonio, di fumi maleodoranti, odori di frizioni, freni dei veicoli messi a dura prova dallo sforzo continuo di centinaia di piedi che accelerano e cambiano rapporti in questo delirio motorizzato. 

Richiudo gli occhi nel cercare di estraniarmi da tutto questo, ma la mente decide di farmi un brutto scherzo ed associare in questa pausa visiva un’altra immagine, per creare forse collegamenti o analogie con altri luoghi, dalla drammatica evoluzione.

Una barca malandata, alla deriva, in mezzo al mare, circondata ed intrappolata dalle onde, cerca di muoversi nel suo navigare, ma il motore è ormai andato, spento, piena e straripante di gente dallo sguardo disperato, sopraffatta dalla stanchezza, dalla paura, tenuta in vita solo dalla sorte e dalla forza di sopravvivere, di chi è alle prese con un viaggio della speranza, pieno di possibile morte, verso un mondo ed un futuro di una vita migliore, scappando dai propri orrori, in fuga da trappole forse ancora più terribili (guerre, persecuzioni, genocidi, condizioni di povertà…), in mare si scorgono mani che si allungano fino a deformarsi, diventano rami verso il cielo alla ricerca della luce, la vita, che tentano di aggrapparsi al natante sgangherato ancora non affondato nel loro forse ultimo sforzo o respiro, altre ormai vinte invece sono prive di forza, sembrano tronchi alla deriva, altre braccia ancora si muovono resistendo, nuotando, lottando contro la forza oscura degli abissi e della morte che sembra attirarle come una calamita verso il basso, c’è inoltre chi si aggrappa disperato a corpi ormai senza vita che diventano nel loro galleggiare organiche boe di speranza, per poi trasformarsi nel ciclo della esistenza prezioso cibo per i pesci.

In questa immagine tremenda, folgorante i più deboli hanno scarse  possibilità di salvezza, si salva solo il più forte, il più fortunato e, come a volte raccontato da chi sopravvive, anche chi riceve il dono della vita attraverso l’ultimo estremo sacrificio, di un padre, una madre a un figlio o da un semplice disperato compagno di sventura.

Un moto d’animo mi fa trasalire, dove sono i soccorsi, cazzo? Dov’è la società dell’umana comprensione? Dov’è la civiltà del ventunesimo secolo, dove sono i paladini dei diritti umani? Dove sono io ora? Non riesco a non piangere, le due scene si sono ora fuse e convivono in un unico sentimento di paura e dolore. Resto fermo, le mie gambe si rifiutano di muoversi, sono salvo dalla trappola solo perché mi trovo su un gradino un po’ più in alto della scalinata, ma a due passi da me c’è l’inferno, l’orrore e mi sento perso come in quel mare, galleggiando su una scialuppa solo messa meglio, un po’ più stabile e non sommersa dalle onde, ma inerme non posso dare nessun aiuto per stringere e salvare quelle mani.

Mi rendo conto, ho la netta percezione che viviamo esistenze restando in trappole tutti insieme, messi aimè davanti alla scelta disperata e fortemente condizionata del si salvi chi può e sempre meno in grado di poter determinare, scegliere invece un’esistenza pacifica non in competizione o in conflitto ma insieme e con l’altro, per la costruzione di una società civile democratica, dove il bene comune condiviso non si mostri sempre più esiguo, insufficiente o addirittura sottratto e per questo oggetto di conflitto sociale. In questo costante processo di sparizione, la guerra, il conflitto con le sue discriminazioni e orrori prende il sopravvento, modificando le nostre anime, rendendoci soggetti sempre più inumani, sordi, ciechi, inesorabilmente persi nella nostra disperata e fottuta solitudine.

Eppure c’è ancora chi è in lotta contro tutto questo e prova a reagire gridando e dimostrando con i fatti che l’uomo ha il suo diritto alla felicità, ad una umana e pacifica esistenza, creando comunità, superando confini, generi, colori, credi ed ideologie, sentendo di appartenere ad un unico pianeta e ad una unica umanità. In questa parte del mondo si sono superati secoli di barbarie, di orrori, scrivendo con il sangue dei martiri i diritti umani e democratici, in una ricerca di cooperazione, l’Europa ne è una testimonianza, uniti nelle differenze, eppure sembra che questi valori si stiano perdendo tutti e la domanda che emerge con la sua urgenza, che dobbiamo porci continuamente è: com’è possibile che stiamo ritornando in questi orrori? Cosa stiamo facendo per impedirlo? L‘inferno è sotto i nostri occhi e noi sembriamo non volerlo vedere o peggio ancora di restare inermi. Ancora il si salvi chi può prevale, la barca affonda e non ci sono né salvatori né salvagenti ma solo l’abisso

Il 16° Presidente degli Stati Uniti d’America, Abraham Lincoln, in uno dei suoi celebri discorsi disse: é possibile mentire per poco tempo ad una moltitudine di persone, è possibile invece continuare a mentire per molto tempo a poche e selezionate persone, ma è assolutamente impossibile continuare a mentire per molto tempo ad una moltitudine di persone.

Nel mondo di oggi la maggioranza della popolazione purtroppo vive ed attraversa sempre più grandi difficolta con aumentata disperazione, dove i propri diritti ed esistenze vengono messi in costante pericolo e la menzogna, nascondendo, negando la necessita delle cose e dei bisogni di tutti, viene sempre più utilizzata dai principali sistemi di potere come efficace arma per spedire tutti noi in trappole. Trappole dove fuggire o immaginare di farlo sembra possibile solo se si supera o si elimina l’altro, ma la verità delle cose invece per me risiede proprio in un tutt’altro procedere. Procedere insieme con impegno, uniti e non contrapposti.

1 commento su “In trappola”

  1. Ernesto Pinto

    La capacità di osservare e raccontare cose e stati animo e peculiare di chi mette a nudo i sentimenti …,
    Bella la fotografia, auguri di vero cuore! E.P.

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