Roma, dicembre 1960
Clinica del dottor Mascia
“Vesti la giubba e la faccia infarina
La gente paga, e rider vuole qua
E se Arlecchin t’invola Colombina
Ridi, Pagliaccio, e ognun applaudirà
Tramuta in lazzi lo spasmo ed il pianto
In una smorfia il singhiozzo e il dolor, ah
Ridi, Pagliaccio, sul tuo amore infranto
Ridi del duol che t’avvelena il cor”.
La voce di Ettore Bastianini si irradia potente dal mobile radio Marelli fendendo il silenzio della gelida sala d’attesa. Antonio De Curtis fissa il pavimento lucido, le mani intrecciate tra loro come in preghiera. Il suo volto, che milioni di italiani associano a Totò, il principe della risata, è segnato da una stanchezza che va oltre la spossatezza fisica: ha uno sguardo profondo, a tratti malinconico, vestito con un’eleganza sobria ma impeccabile. Il gessato ben stirato, un fazzoletto candido nel taschino, le mani curate che tradiscono una raffinatezza naturale, non ostentata.
Se si potesse guardarlo però dietro gli eterni occhiali scuri, potremmo scorgere occhi neri, tristi, emblema di un’interiorità complessa, di una umanità profonda.
“È grave, dottore?” aveva chiesto con voce tremante qualche ora prima, quando il medico lo aveva guardato negli occhi, sorpreso da quell’urgenza.
“Farò il possibile, ma…”
Ma non si trattava di una persona, bensì di un cane. Mosè, un meticcio trovato per strada, investito da un’auto, era tutto ciò cui Antonio De Curtis riusciva a pensare. Per lui, salvare quella vita forse significava redimere tutte le anime randagie che lo avevano accompagnato nel cammino di un’esistenza fatta di sogni, di stenti, di sacrifici prima dell’immenso successo.
Seduto sulla poltrona di pelle nera, stende la testa sullo schienale alto e si lascia avvolgere dai ricordi.
Un bambino, figlio naturale di un padre che non lo ha voluto riconoscere, scalzo per le vie della Sanità, il quartiere popolare dove ogni angolo odorava di miseria e dignità. Il suo piccolo mondo è fatto di gatti affamati e cani randagi, compagni di una solitudine che lo tiene stretto, persino quando la madre cercava di consolarlo con carezze e canti. Ricorda quella notte che trovò un cane tremante sotto un carretto. Lo chiamò Spiniello perché era secco e sottile come una spiga di grano. Gli diede un pezzo di pane rubato dalla tavola e gli promise che, un giorno, sarebbe stato grande abbastanza da prendersi cura di tutti, anche dei bastardini come lui.
La voce del medico lo riporta al presente. “Abbiamo fatto tutto il possibile, lo abbiamo salvato ma… il suo cane non potrà più camminare.”
Il principe di Costantinopoli si alzò, il cuore pesante. “Non importa quanto costa, dotto’. Fatelo camminare di nuovo. Avete capito? Deve tornare a correre!”
Non è la prima volta che la sua generosità sfida ogni limite. Aveva speso una fortuna per costruire un ospizio per cani e gatti randagi, finanziato orfanotrofi e trovato modi discreti per aiutare i poveri. Di notte, infilava banconote sotto le porte delle famiglie più indigenti, scomparendo prima che qualcuno potesse ringraziarlo. Non voleva lodi, né riconoscimenti. Voleva solo restituire un po’ di ciò che la fama gli aveva regalato.
Passarono mesi prima che Mosè fosse pronto a tornare con lui. Quando lo vide camminare sulle sue protesi a rotelle, un sorriso si aprì sul volto di Antonio, un sorriso sempre pervaso di quella sottile malinconia che non lo abbandonava mai lontano dalle scene.
Volle portarlo con sè a Napoli, una vacanza premio per entrambi. Il distinto principe ed il meticcio di grossa taglia, con delle rotelle al posto delle zampe posteriori camminavano insieme per i vicoli lontani dalle luci della ribalta. Ogni passo di Mosè era una vittoria tangibile, un inno alla vita che ad Antonio apriva il cuore.
Una sera, si fermarono nei giardinetti di piazza Cavour Mosè abbassò il muso sulle gambe del padrone, Antonio lo accarezzava distrattamente mentre s’incantò a guardare l’acqua della” fontana delle paparelle”, perso nei pensieri. “Lo sai, Mosè,” sussurrò, “io e te siamo uguali. Due randagi che il cielo a beneficato.”
Il cane lo guardò, con quegli occhi pieni di gratitudine che nessun essere umano avrebbe mai potuto replicare. Totò gli accarezzò la testa e si alzò, dirigendosi verso l’albergo sopra Santa Teresa. Prima di entrare, si fermò davanti a una porta anonima e lasciò cadere una busta sotto lo stipite. Poi un’altra. E un’altra ancora.
Il mondo avrebbe ricordato Totò come il re della comicità, ma lui, nel silenzio della notte, preferiva restare Antonio, il randagio che non aveva mai smesso di amare la sua città.
Epilogo: L’uomo dietro la maschera
Pochi conoscono davvero il lato più umano e meno illuminato dai riflettori del Principe della Risata. Totò dedicò molto della sua vita e delle sue fortune agli animali e ai bisognosi. Finanziò la costruzione di un rifugio per cani, dove accolse centinaia di animali abbandonati, spendendo ben 45 milioni di lire, una cifra astronomica per l’epoca.
Ma la sua generosità non si fermava lì; finanziò orfanotrofi e ospizi senza mai voler apparire. Era un uomo che dava tutto agli altri, tranne che a se stesso. Nato senza un padre e con un vuoto che nemmeno la gloria seppe colmare, trovò nei cani e nei gatti randagi il riflesso della sua anima libera e sofferente.
Come scrisse lui stesso:
“La mia vita è stata un gioco,
un sospiro tra il riso e il pianto.
Ma se c’è un amore che mi consola,
è quello di chi, senza parole,
ti guarda, e tace, e ama davvero.”
Non ho parole. Mi ha profondamente commosso. Ora ho un altro motivo in più per amare Totò.
Grazie mille dottor Pollina, lieto che le sia piaciuto.
Quando Totò era vivo, non era apprezzato come merita oggi. Per noi, gente comune, era un genio, faceva ridere e pensare, ma i critici lo snobbavano. Eppure, chi lo ha visto dal vivo sa che era qualcosa di unico. Bastava un gesto, una smorfia, e la sala esplodeva in una risata. Lui conosceva l’arte del corpo, la comicità che nasce dalla vita vera, dalla strada.È stato rivalutato solo dopo la morte, quando si sono resi conto che dietro quel guitto c’era un poeta, un uomo che parlava al cuore della gente.
Saluti da Strato
Grazie dottor Strato per il suo intervento.
Credo che la critica dell’epoca non colse lo spessore artistico di Totò perché cercava altrove l’Arte: nei formalismi accademici delle scuole attoriali o nelle novità ostentate delle avanguardie. Oggi ,giustamente, esaltiamo il suo genio, ma questo riconoscimento postumo ci racconta più della cecità di allora che della sua arte. Totò era, ed è, immenso.
Cordialità.