Roma, dicembre 1999
via Nemorense – pomeriggio inoltrato
Nella penombra della sua casa romana, un’anziana e minuta signora siede al tavolo del soggiorno, il volto illuminato dalla luce incerta di una lampada di Giò Ponti. Intorno a lei, cimeli di una vita spesa sulle scene: copioni sgualciti, foto in bianco e nero con i grandi del teatro e del cinema: Eduardo, De Sica, Patroni Griffi, Visconti, John Huston. Ognuno aveva lasciato un segno nella sua vita, ma nessuno era rimasto davvero accanto a lei. Le scelte che aveva fatto – la carriera, l’indipendenza – l’avevano condotta lì: sola, circondata dai ricordi di un passato glorioso e dai fantasmi del rimpianto. “Sì, ma ci vuole coraggio”. Ripensava spesso a questa battuta recitata chissà quando, chissà dove, forse nella “Madre” di Bertolt Brecht.
Lei non era sempre stata sola. Non del tutto.
La mente va a qualche anno prima, al Festival di Todi, quando lo aveva conosciuto. Antonio S., un giovane cantante di straordinario talento. Esile come un chiodo, tutto occhi e capelli: “na’ creatura nel corpo di un uomo”. Ride ricordando mentre inforca gli occhiali per rivederlo in foto insieme a lei, sorridenti, abbracciati. Antonio era napoletano come lei, la sua voce, limpida e potente, aveva riempito il teatro con le note tristi di “Bambenella” di Viviani, strappando applausi interminabili e commuovendo persino lei, abituata a esibizioni impeccabili e a congelare i suoi sentimenti sulle tavole del palco.
“Bravissimo,” gli aveva detto quella sera, avvicinandosi a lui dietro le quinte. Lui l’aveva guardata con occhi pieni di stupore.
“Pupella, Pupella Maggio!” aveva esclamato, gli occhi dell’uomo brillavano di stupore, di ammirazione come chi per un attimo ha la visione di una divinità. Ci fu subito empatia, quella notte, nel bar dell’albergo, Antonio si era aperto. Non era solo un talento eccezionale; era un giovane uomo troppo sensibile, quasi incrinato.
“Non mi manca il successo che come tutti inseguo”. Le aveva detto tormentando il bicchiere con entrambi le mani. “Mi manca l’affetto, mi mancano la famiglia e gli amici”. Un altro sguardo alle mani per sfuggire allo sguardo di madre della vecchia attrice. “Mi hanno lasciato solo quando ho detto loro di essere un diverso, di essermi ammalato in cerca dell’amore in tanti compagni”.
Le parole colpirono Pupella come uno schiaffo. All’epoca, l’AIDS non era solo una condanna fisica, era una lettera scarlatta, un marchio d’infamia da sopportare tacendo.
“Diceno ca è ‘na malattia sporca, nu male de’ ricchiune”. le raccontò con amarezza.
“Per loro sono un frocio che ha avuto quello che si merita”. Dicendo questo, rise ma una lacrima solcò il viso dai tratti angelici.
Pupella lo ascoltava in silenzio, il cuore pesante. Anche lei conosceva la solitudine, anzi se l’era imposta come disciplina per eccellere nella sua arte, senza distrazioni. In un mondo che imponeva l’avvenenza fisica e la bellezza per una donna, lei scriveva di sé: «Sono brutta, nun so’ bella – chesta so’, ‘na cartuscella, – ‘na palomma cu una scella».
La solitudine di Antonio era diversa: imposta, crudele, figlia di schifosi pregiudizi.
“Vieni a stare da me”, gli disse quasi senza pensarci. Lui la guardò incredulo: “Non posso accettare”.
“Non è un’offerta guagliò, è ‘na necessità…”
Antonio arrivò qualche settimana dopo a Roma, accettando la proposta dell’attrice. Pupella gli aveva preparato una stanza accogliente, tra vecchie locandine di spettacoli e scaffali pieni di libri. Lui riempiva la casa con la sua presenza, ma non con il rumore. Parlava poco, preferendo rifugiarsi nella musica. Cantava spesso al pianoforte, la voce scivolava tra le note con una grazia che Pupella trovava quasi soprannaturale.
Parlavano spesso di Napoli, della loro infanzia passata a calcare palcoscenici, con quella sagacia che solo i veri istrioni sanno proporre. In quei momenti, era più Pupella a parlare. Gli parlava della sua carriera: le discussioni con Eduardo, le riprese con De Sica, l’ossessione per i dettagli di Visconti, le assurde pretese di John Houston. E poi gli applausi a Parigi e i lunghi viaggi in tournée. Ma c’erano giorni in cui il dolore fisico e l’angoscia del ragazzo la facevano tacere. Tutta la sua bravura di consumata attrice non riusciva a distrarre Antonio né a fargli dimenticare per un attimo la malattia.
“Perché hai scelto di essere sola, Pupè?” le chiese un giorno, chiamandola con quel soprannome che tutti le riservavano.
“Non l’ho scelto davvero”, rispose lei, fissando un punto indefinito. “Ho scelto l’arte. E l’arte non ammette rivali. Ti dà tutto, ma ti prende tutto”.
L’uomo la guardò a lungo, poi sorrise appena: “Allora siamo uguali, io e te. Anche io ho scelto l’arte, il resto non conta”.
Seguirono tre anni di successi incredibili per Antonio; lavorò con Roberto De Simone, Carla Fracci; Claudio Mattone scrisse “Scugnizzi” pensando alla sua particolarissima voce, ma non c’era cura per l’AIDS, Antonio, minato nel fisico dalla malattia, divenne ancora più magro, quasi etereo…
Una mattina, Pupella fu svegliata da una melodia che attraversava la casa. Si alzò lentamente, seguendo la musica fino al soggiorno. Antonio era seduto al pianoforte, la schiena curva, ma la voce forte, limpida. Cantava ‘nu pensiero, e ogni nota sembrava scolpire la tenue luce intorno a lui.
L’anziana attrice rimase sulla soglia, le lacrime che le rigavano il volto. Per la prima volta, non sentì il gelo della segregazione autoinflitta ma solo la bellezza totalizzante dell’arte.
“Guagliò…” disse piano, entrando nella stanza. Lui si voltò, il sorriso stanco, sincero: “Canto per te, Pupè. Perché tu mi hai salvato”.
Quella sera Antonio si spense tra le braccia di Pupella. Era seduta accanto a lui, una mano che gli accarezzava la fronte, l’altra che stringeva la sua. Quando lui emise l’ultimo respiro, l’anziana donna rimase immobile, trattenendo il dolore che le esplodeva nel petto. Lo guardò, il volto sereno, e pensò a una Pietà, ma non a quella fredda di marmo di Michelangelo, una Pietà fatta di carne, di vita, di lacrime e miseria umana.
Ricordando l’amico, l’attrice non si è accorta che si è fatta notte. La casa non sembra più vuota, non per lei. Si alza e apre il coperchio del vecchio pianoforte, immagina la voce di Antonio che riempiva le stanze: “Non è la solitudine che uccide,” pensa, “ma l’indifferenza”.
Poi, in un silenzio carico di emozione, comincia a cantare con la sua voce gracchiante “nu pensiero”. Lo fa per lui, per lei, per l’arte che li aveva uniti e che, in fondo, li avrebbe resi immortali.
Nota
Antonio Sorrentino si spense all’età di 38 anni il 23 novembre 1998, sulla sua lapide è incisa questa frase: “Quann’ cantave tu tutt’era overo e vierno addeventava primmavera”.
Pupella Maggio morì l’8 dicembre 1999, i suoi funerali furono degni di una regina.
Un racconto struggente e toccante, ma mi chiedo: esistono testimonianze o fonti attendibili che confermino questa storia, o si tratta di una suggestione narrativa?sarebbe interessante chiarirlo soprattutto per rispetto alla memoria dei protagonisti. grazie
Grazie per aver letto il racconto e per averlo commentato. La storia è stata drammatizzata basandomi su due fonti principali: Napoletani si nasceva di Vittorio Paliotti (2002, Newton & Compton editori) e Lo scugnizzo elegante di Antonio Porpora Anastasio (2004, Edizioni dell’Ippogrifo). Entrambi i testi mi hanno offerto spunti e testimonianze che hanno ispirato il racconto. Mi permetta ora lei una domanda signor Marsi: Cosa offenderebbe (ipoteticamente) la memoria dei protagonisti? La malattia? L’omosessualità?
Ogni frase è stata scritta con cura e con una sensibilità che non cerca mai la facile commozione ma arriva dritta al cuore. Grazie per aver condiviso una storia così emozionante, che riesce a parlare a chiunque, mostrando la bellezza e la vulnerabilità dell’essere umano.
Grazie Raffaele, sono felice che sia riuscito a “far arrivare” quello volevo trasmettere. Naturalmente la percezione emotiva è una merce rara che in pochi possiedono o meglio che la coltivano esaltandola, questo non riguarda sicuramente te che ne sei portatore sano.