L’equilibrio di un corpo sul nostro pianeta deve tener conto inevitabilmente di una forza a distanza che determina la sua influenza sulla sua esistenza e sul suo movimento nello spazio, tale forza viene chiamata forza di gravità. Una forza a distanza che attrae ogni cosa verso il centro della Terra. È così che fin da piccolo, pur sognando ad occhi aperti di volare come gli uccelli liberi apparentemente da tale attrazione, sono sempre precipitato dai miei sogni verso il basso. Cadute che, con il passare del tempo, insieme alla mia crescita mi hanno reso familiare avere e coltivare uno sguardo in direzione dei miei passi che, muovendosi uno dopo l’altro nello spazio, mi invitano a prendere consapevolezza su cosa realmente entro in contatto semplicemente calpestandola.
Non si tratta, come spesso viene descritta, di un’espressione della natura psicologica di persona timida, chiusa in se stessa, o di atteggiamento remissivo di chi sottomesso non alza gli occhi al cielo, a tal proposito mi viene in mente l’immagine potente dei raccoglitori di patate nei commoventi quadri di Van Gogh. Nei dipinti i soggetti sembrano legati indissolubilmente alla terra da cui traggono il nutrimento, così come il loro patimento, umilmente chinati verso il frutto della loro opera quotidiana, il tubero, la patata. Ma di prendere coscienza sempre più di cosa c è sotto di noi, e, in un cambio di prospettiva, cosa concretamente ci sostiene nella nostra posizione di esistenza di corpo in movimento o in stato di quiete e soprattutto da cosa è composto, quale è la sua natura, la sua formazione, fino a cercare di capire il suo mondo segreto, da cui tutti deriviamo. Posso tranquillamente affermare che preferisco, piuttosto che scrutare il cielo con la crisi climatica oggi per sua natura sempre più mutevole ed instabile, foriero di sciagure, disastri, invece comprendere e riflettere su tutto ciò che vi è al di sotto.
Come la scienza ci dimostra, considerare che a questa condizione si è giunti proprio trascurando e spostando continuamente l’attenzione, la cura, verso qualcosa di lontano dal suolo, dimenticando cosi la sua funzione di elemento generatore di vita e risorse in quelli che vengono definiti ecosistemi.
L’incertezza di cosa può accadere nel movimento da un passo all’altro, per me racchiusa in una delicata immagine di quasi impercettibile passaggio da un arrivederci ad un benvenuto, mi mostra in maniera inesorabile la natura fragile ed al tempo stesso profondamente umana dell’esistenza. Esistenza oggi sempre più caratterizzata da un caotico ed inarrestabile movimento a tutti costi, dei nostri passi e sopratutto del nostro tempo.
Così ci spostiamo continuamente da un luogo ad un altro, senza renderci assolutamente conto di quello che è il nostro passo, quella che viene descritta come la nostra impronta, e di che cosa modifichiamo con il nostro passaggio, anche semplicemente camminando. Un semplice passo, dove è racchiuso nel breve spazio, la complessità delle relazioni del mondo dall’importanza enorme, vitale.
Lasciare qualcosa o un luogo per incontrarne un altro è un’operazione da non prendere alla leggera e non priva di sacralità, facendo emergere istanze dalla natura profonda, universali ed arcaiche. Mi viene poi da chiedere, sospeso a mezz’aria nel mio movimento, cosa stiamo portando in offerta oltre al nostro peso, scandito dalla gravità, in questo passaggio, facendo emergere una domanda ancora più urgente: tutto ciò che mi sostiene, mi accoglie, mi dà il benvenuto o semplicemente mi sopporta? Sospeso in questo dilemma il salto è sia temporale che nella memoria rischiando di precipitare nel vuoto, facendo un passo falso.
Nei luoghi e le città che attraversiamo, osservatorio privilegiato delle nostre società, guardare verso il basso, stando attenti a dove mettere i piedi e a cosa realmente si attraversa o si calpesta può cosi diventare occasione dove si manifestano piccole e grandi epifanie che svelano il processo del nostro stare al mondo e del come stiamo al mondo.
Sentire ciò che sta sotto o in prossimità dei nostri piedi mi rimanda per questo a sensazioni lontane di quando ero bambino, dove a piedi nudi esploravo la mia intima relazione con il mondo, in riva al mare, sopra un prato, o semplicemente per terra, dopo aver conquistato l’inebriante equilibrio in posizione eretta, nella febbrile felicità del camminare, spostando un piede dietro altro, appunto. La posizione eretta è una conquista evolutiva, per l’umanità, che dimentica (ahimè) troppo in fretta, per recuperarla poi, solo nelle condizioni di malfermità e di avanzata senilità. Eppure il nostro stare al mondo dipende da come tutto ciò che ci sostiene viene considerato e trattato, pensarlo diversamente è nella natura dei folli e degli stolti e, vista la situazione in cui viviamo, ci rivela cosa siamo realmente diventati. Sembrerebbe facile e riduttivo fare un’operazione di specchiarsi nel mondo e considerare che il mondo sia una sorta di immagine riflessa dell’uomo con tutto il resto, questo processo fisico e percettivo appagherebbe ed andrebbe ad alimentare ulteriormente il narcisismo che soggiace nell’uomo stesso e che vede nella sua continua autorappresentazione il suo principale strumento di potere. Un processo in realtà solo parziale che l’uomo stesso utilizza per colonizzare tutto il resto. Mi interessa invece prendere e mettere in luce quel processo fisico chiamato rifrazione dove, come in un raggio di luce che attraversa un prisma e si rendono manifesti tutti i suoi colori, si possano scorgere la compresenza e le complesse interrelazioni, i cosiddetti legami tra le parti, in una unità inseparabile dell’uomo con il resto del mondo.
Avere il coraggio di rompere lo specchio, di mandarlo in frantumi è una premessa indispensabile per far ritornare ad essere visibili quei legami costitutivi tra le cose e le esistenze, che invece sembrano come evaporati nella quotidiana sostituzione di una realtà sempre più smaterializzata dalla sua stessa immagine riflessa. E bisogna farlo senza essere superstiziosi, dove la superstizione si nutre soprattutto di paure, mosse dall’ignoranza, spesso frutto di errori, di convinzioni sorpassate, mai elaborate e di atteggiamenti poco razionali e fin troppo emotivi. Non ci sono che due grandi paure da affrontare, diceva il filosofo presocratico Empedocle, la paura della morte e quella dell’ignoranza, per vivere la vita appieno, con presenza e mettendo amore in tutto ciò che si fa. Se non avete mai provato a rompere uno specchio per poi riflettervicisi dentro, fatelo, senza timori, potremmo essere sorpresi di quante cose inizieremmo a scoprire di noi e della nostra apparente interezza. Viviamo di riflesso troppe cose, troppe informazioni, mentre in realtà le cose ci attraversano e interagiscono nel profondo anche quando pensiamo di lasciarle in superficie, o rapidamente di rimuoverle allontanandole da noi, esse ritorneranno sotto altre forme ed allora il nostro semplice apparire non sarà più valido. Le acque rassicuranti nello stagno di Narciso si sono tramutate tutte a un tratto in onde minacciose dove non sarà più tanto facile nuotare.
Interessante, mi sono ritrovata molto nel riflettere sentimentalmente sulla conquista umana della posizione eretta e ciò che vuol dire muovere passi fisicamente e mentalmente.
bello spunto, molto interessante.
il concetto di volgere lo sguardo verso il basso, il terreno, (ahimé) il cemento delle strade, è “sfigato” e per questo lo adoro e soprattutto e li che ci si ritrova prima o poi tutti e tutte. apparentemente molto più audace dire di “puntare al cielo”, “oltre l’orizzonte” adottando così un pensiero, un punto di vista astratto e poco concreto, senza contatto con la storia e la verità, inutilmente onirico.
lasso dopo passo é fondamentale anche capire con chi muovere i passi, e come calibrarli. sulla velocità del passo, e su come potrebbe essere utile andare al passo del più lento, rallentare, senza fermare il passo, o almeno quello mentale.
Commento da Arch.Teresa Leone che non è riuscito a postarlo e che mi ha chiesto di postarlo per lei :Pochi avranno il coraggio di rompere lo specchio e di trasformarlo in frantumi…specialmente in un’epoca in cui tutto si fa tranne che guardare (e magari “criticamente”…) nel ns “io”, ma magari qualcuno lo fa, cerchiamo di mettere da parte il pessimismo! Narciso avrà vita difficile, hai ragione, ma non per questo -purtroppo desisterà dal guardarsi….e con lui miliardi di umani che lo seguiranno ciechi nel mare in burrasca, come gli operai nel celebre film di Fritz Lang che Corrono dietro una “imbonitrice” senza badare al resto…. Bravo, Antony, raccogli questi pensieri e fanne un libro….scripta manent….non nel web, ma nella letteratura.b
credo che spesso si oscilli tra due atteggiamenti opposti. Da una parte, si vive trascurando di guardare il basso, la terra, il presente, che è fatto di aspetti che sono il frutto di conquiste umane o di doni della natura, fino al momento in cui si perderà ciò che sembra scontato ed eterno; dall’altra, invece, si può cadere nell’estremo opposto, e vivere con il costante timore che prima o poi saremo costretti a fare i conti con il tema della perdita. E qui torno alla riflessione iniziale sul tema dell’equilibrio, che mi sembra proprio cruciale, alla luce di queste due tensioni opposte. Inoltre, le paure per il futuro, negli ultimi tempi, stanno assumendo sempre più la caratteristica dell’incertezza legata allo stesso presente, rendendo ancora più difficile trovare una posizione stabile.