Democrazia, un’utopia?

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Per secoli, anzi per millenni, quasi tutti i popoli vissuti sulla nostra Terra non hanno mai conosciuto la libertà. Per libertà non intendiamo qui il non essere vincolati in ceppi e la facoltà di fare scelte personali nei vari campi della nostra esistenza. No, intendiamo, piuttosto, la libertà — fondamentale — di poter scegliere da chi essere governati e con quale sistema. Il termine “elezioni” con la partecipazione di tutto il popolo era del tutto sconosciuto fino a pochi decenni fa. Sappiamo bene che, fino ad un paio di secoli fa e fin dalla notte dei tempi, pressoché tutte le generazioni umane che si sono susseguite non avevano mai avuto altra forma di governo che quello del re, del tiranno, del dittatore, del principe, del despota, e via dicendo. Il sovrano, per esempio, non era scelto da nessuno per esercitare il suo dominio, anche se si fosse trattato di una persona insignificante, digiuna di ogni arte politica e di gestione della cosa pubblica. Lo era semplicemente per diritto di nascita, e cioè di aver avuto la ventura che il grembo dal quale era uscito fosse quello della moglie del re, del sovrano o, comunque, di chi comandava. Certo non erano, e non potrebbero essere queste le credenziali migliori per chi avesse dovuto occuparsi della gestione di interi popoli, compresa l’autorità di condurli a morire nelle guerre che sarebbero servite a lui, il re, e soltanto a lui, per soddisfare le sue manie di grandezza. Ed ecco spiegato il motivo per cui nel corso dei secoli abbiamo assistito a insurrezioni, rivolte popolari, regicidi: per il semplice fatto che il popolo, quando proprio non ne poteva più e non avendo alcun altro sistema per cambiare la situazione, imbracciava i forconi e faceva la rivoluzione; rivoluzione che, molto spesso, con il tempo riportava le cose allo status precedente.

Ma poi cominciò ad avvenire qualcosa di sorprendente, cominciò a farsi strada un’idea che era stata inizialmente coltivata millenni prima nell’antica Grecia: quella della democrazia (dal greco antico: démos, “popolo” e krátos, “potere”), cioè il potere del popolo. Come scrisse Pericle: «Il nostro sistema politico non si propone di imitare le leggi di altri popoli: noi non copiamo nessuno, piuttosto siamo noi a costituire un modello per gli altri. Si chiama democrazia, poiché nell’amministrare si qualifica non rispetto ai pochi, ma alla maggioranza». Parole di un uomo, vissuto mezzo millennio prima di Cristo, ed uno dei più grandi uomini politici, democratico, a cui la Grecia abbia mai dato i natali. Ma anche Pericle morì e tutto il resto del mondo allora conosciuto continuò ad essere governato senza che il “popolo” potesse avere la minima influenza su ciò che avveniva al di sopra della sua testa. Ma poi, verso la metà del XVIII secolo, cominciò a verificarsi uno strano fenomeno in un paese appena nato, dall’altra parte dell’Atlantico. Inizialmente fu chiamato il Nuovo Mondo, ma con il tempo, in onore di Amerigo Vespucci, fu chiamato “America”. In questa inizialmente piccola colonia sviluppatasi sulle coste occidentali del continente, centinaia di migliaia di immigrati dalla vecchia Europa, memori dei regimi sotto i quali erano vissuti da sempre, costruirono la prima vera democrazia del nostro tempo. Un grande scrittore francese di allora, Alexis de Tocqueville, scrisse, al riguardo, le seguenti parole: «In America il principio di sovranità popolare non resta affatto nascosto o sterile come in altre nazioni; è riconosciuto dai costumi e proclamato dalle leggi, si estende liberamente e giunge, senza incontrare ostacoli, fino alle sue ultime conseguenze. Se c’è al mondo un solo paese nel quale si possa apprezzare nel suo giusto valore il dogma della sovranità popolare, studiarlo nella sua applicazione alla vita sociale e giudicarne i vantaggi e i pericoli, questo paese è certamente l’America».

Abramo Lincoln, sedicesimo presidente degli Stati Uniti, nel corso della sanguinosa guerra di secessione, pronunciò a Gettysburgh un discorso che lo rese famoso. In esso, parlando di chi si era battuto perdendo la vita per la difesa della nuova nazione, egli così si espresse: «Il mondo noterà appena, né a lungo ricorderà, ciò che qui diciamo, ma mai potrà dimenticare ciò che essi qui fecero. Sta a noi viventi, piuttosto, il votarci qui al lavoro incompiuto, finora così nobilmente portato avanti da coloro che qui combatterono. Sta piuttosto a noi il votarci qui al grande compito che ci è dinnanzi: che da questi morti onorati ci venga un’accresciuta devozione a quella causa per la quale essi diedero, della devozione, l’ultima piena misura; che noi qui solennemente si prometta che questi morti non sono morti invano; che questa nazione, guidata da Dio, abbia una rinascita di libertà; e che l’idea di un governo del popolo, dal popolo, per il popolo, non abbia a perire dalla terra».

Parole immortali che hanno come oggetto principale il popolo; era quel popolo che avrebbe dovuto custodire e applicare i principi di uguaglianza, di giustizia e di equità che avrebbero dovuto caratterizzare quel Paese. De Tocqueville, nell’introduzione al suo capolavoro La democrazia in America (Utet, 1968), così scrisse: «Il graduale sviluppo dell’uguaglianza è un fatto provvidenziale; e ne ha i caratteri essenziali: è universale, duraturo, si sottrae ogni giorno alla potenza dell’uomo, tutti gli avvenimenti, come anche tutti gli uomini, ne hanno favorito lo sviluppo. Sarebbe quindi saggio credere che un movimento sociale che ha così lontane origini possa essere arrestato da una generazione? C’è forse qualcuno che può pensare che la democrazia, dopo aver distrutto il feudalesimo e aver vinto i Re, indietreggerà poi davanti ai borghesi e ai ricchi? È possibile che si arresti proprio ora che è divenuta tanto forte e i suoi avversari tanto deboli?»

Non può revocarsi in dubbio che il protagonista assoluto della nuova nazione, confermato dalle parole di Lincoln, è il “popolo”; suo il governo, suo lo stato, sua la sovranità. Però, c’è un però. Le parole di Lincoln e di De Tocqueville furono scritte orsono un paio di secoli fa e da allora i popoli, per le meno la maggior parte di quelli occidentali, si sono, per così dire, assuefatti alla democrazia: non riescono nemmeno a concepire che possa esservi un altro modo di governare le loro nazioni e quindi, essendosi assuefatti, non se ne curano più di tanto, dando per scontato che le cose stiano e saranno sempre così. Ma, purtroppo, non è vero. Gli elettori sono stanchi, sfiduciati, disillusi. Ormai quasi sempre, ad ogni consultazione elettorale, uno su due diserta abitualmente le urne. La politica annoia, non interessa. Neppure nei talk show, i cui ascolti volano rasoterra. E non c’è da stupirsene. Basta sfogliare i giornali o seguire sugli schermi televisivi o del computer le interminabili e inascoltabili continue diatribe fra le opposte fazioni, che ogni giorno di più aumentano, a causa della frammentazione dei movimenti politici, dai quali nasce ogni giorno una nuova formazione, peggiore delle altre che l’hanno preceduta. Il comune elettore ha ormai capito che a lui non è lasciato che un compito di rappresentanza nel quale egli conta pressoché nulla. Non gli è dato scegliere i candidati perché li hanno già scelti gli altri: le oligarchie politiche. L’unico momento in cui può esercitare veramente il suo diritto di esprimere una preferenza per una persona è durante i referendum; tutte le altre occasioni elettorali sono soltanto una farsa. Ma, come dice Michele Ainis su Repubblica, c’è però una piccola base su cui sperare: «Innanzitutto non è vero, non è del tutto vero, che l’apatia abbia sommerso definitivamente la nostra vita pubblica. Non è vero che gli italiani siano ormai rassegnati o peggio indifferenti rispetto al loro destino collettivo. C’è, invece, sottotraccia, un’energia, una voglia di decidere. Però dal basso, e non sotto dettatura … ed è questa la differenza tra la democrazia delegata delle consultazioni elettorali e la democrazia diretta dei referendum. Nella prima scegli chi deciderà in tua vece, e anzi non lo scegli, se il suo nome figura in un listino bloccato; nella seconda decidi tu in prima persona, selezionando le questioni su cui vuoi decidere».

È quindi a questo protagonista distratto e dimentico che dobbiamo girare la domanda. Che popolo vuoi essere? Un popolo che, stanco delle magagne di un personale politico assolutamente inadatto a governare non un paese ma nemmeno un piccolo comune, si è ormai rassegnato, pensando che le cose andranno sempre così e in tal modo “tirare a campare”? no, certamente non dev’essere così. L’Italia democratica, l’Europa democratica non devono essere un’utopia, ma una realtà, una realtà concreta, e sta a noi deciderlo.

Ci piace quindi concludere con le parole del grande francese (che, ovviamente non poteva sapere, e nemmeno sognare negli incubi, che sarebbe sorto e risorto un individuo come Trump): «In quale altro paese potremmo trovare maggiori speranze e più utili lezioni? Non volgiamo però gli sguardi verso l’America per copiare servilmente le istituzioni che essa si è data, ma per capire meglio quelle che convengono a noi, per attingerne insegnamenti più che esempi, per trarne i princìpi delle leggi piuttosto che i particolari. Infatti le leggi della Repubblica francese (o di quella italiana) possono, e in molti casi, devono essere diverse da quelle che reggono gli Stati Uniti, ma i princìpi su cui posano le costituzioni americane, quei princìpi d’ordine, di equilibrio dei poteri, di vera libertà, di rispetto sincero e profondo del diritto sono indispensabili a tutte le repubbliche, devono essere a tutti comuni; e si può affermare sin d’ora che là, dove non ci saranno, la repubblica cesserà ben presto d’esistere». Che la nostra repubblica democratica continui a prendersi cura dei suoi cittadini e non sprofondi nell’oblìo a cui sembra essere destinata, ancora una volta dipende da noi e solo da noi: dal POPOLO!

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