La casa di mia madre è rimasta immutata nel tempo, un museo polveroso di piccole cose di cattivo gusto, come direbbe Gozzano. Soprammobili di porcellana, centrini ricamati, statuette di santi con lo sguardo severo. Ogni angolo intrappola un frammento di vita passata, come se volesse obbligarmi a ricordare.
La casa della mia infanzia è rimasta ferma nel tempo, immobile come una foto sbiadita. Tutto è come lo ricordavo, ma io non sono la stessa. Entro e chiudo la porta dietro di me. Mi fermo davanti allo specchio dell’ingresso, lo stesso che da bambina usavo per giocare a truccarmi di nascosto. Ora riflette un’immagine che non riconosco del tutto. Vesto di nero, un abito lungo e castigato che nasconde ogni curva del mio corpo. Mi stringe al petto come una gabbia, sfumando ogni parvenza di femminilità. Ai piedi, scarpe basse, anch’esse scure, scelte per non attirare l’attenzione. Indosso occhiali scuri, grandi, sproporzionati, che nascondono metà del mio viso. Dietro di loro posso osservare senza essere vista.
Mi tolgo il cappotto e lo appoggio sulla poltrona accanto alla porta. Una ciocca di capelli sfugge dalla crocchia che ho cercato di sistemare stamattina per il funerale di mia madre. Mi guardo ancora per un attimo, cercando un segno che dica chi sono. Ma lo specchio non risponde. La casa è immersa in quel silenzio che solo nelle abitazioni di chi è appena morto si può avvertire. La pioggia scivola lenta sui vetri, il ticchettio di un vecchio orologio sembra scandire ogni istante con la precisione di una condanna, sottolineando l’assenza di chi amavi. Entro nella sua camera da letto e avverto forte l’odore dei medicinali, della miseria umana di ogni malato. Apro i cassetti di un vecchio comò e inizio a frugare. Cerco qualcosa, non so neppure cosa. Un ricordo, forse. O una scusa per non scappare da questo silenzio che mi pesa addosso.
Ed è lì che la trovo: una busta ingiallita con il mio nome scritto a mano: Maria.
Lo riconosco subito, è il tratto delicato di mia madre, minuto, spezzato: Consiglia, penso. È la prima volta in cui riesco a pronunciare mentalmente il suo nome dopo che se ne andata senza abbassare gli occhi. Lasciando scorrere fieramente le lacrime, mi siedo sul letto dove l’orma del suo corpo è ancora percepibile. La busta profuma leggermente di sapone Rexona, come lei quando da piccola correvo ad abbracciarla all’uscita da scuola. Sfilo il foglietto e inizio a leggere:
“Maria mia,
non so se leggerai mai queste parole, ma scriverle mi dà una forza che non ho mai provato. Voglio raccontarti la mia verità, perché il silenzio mi ha distrutto. Tuo padre non era l’uomo che tutti credevano. Mi ha amata, forse, ma a modo suo. Quando tornava a casa, portava con sé la stanchezza, l’ira, e io ero il suo sfogo. Non lo capivo allora. Credevo che fosse normale, che il matrimonio fosse fatto di sacrifici e di botte.
Quando mi ha colpita la prima volta, ricordo di aver pianto in silenzio, rannicchiata in cucina. Non era lo schiaffo a farmi male, ma la vergogna. Il pensiero che fosse colpa mia.
E poi c’eri tu, Piccola, con i tuoi occhi curiosi. Guardavi tutto, e io mi ripetevo che non dovevi sapere. Ho nascosto il dolore, ora so che ho sbagliato”.
Abbasso la lettera. Le mani mi tremano. Mi alzo e cammino verso la cucina. Mi sembra di sentire ancora il rumore delle sue mani sempre a lavoro, il tintinnio delle pentole sul fuoco. Ma il flashback che mi investe è un altro.
Una sera, avevo sei anni. Entrai in cucina e la trovai seduta per terra, con la testa china e un fazzoletto premuto sull’occhio gonfio. Le chiesi cosa fosse successo, e lei mi rispose che era caduta, le avevo creduto.
E poi penso a me stessa. La prima volta che il mio compagno mi colpì, fu per una sciocchezza. Avevo dimenticato di spegnere la luce. Mi chiese scusa dopo, mi portò un mazzo di fiori. Ma gli schiaffi non si fermarono, e con il tempo imparai a non farci caso. A nascondere i segni sotto il trucco e il silenzio. Perché tutti credevano nella sua bonomia… Perché chi mi avrebbe creduta?
“Maria, tu non devi fare il mio stesso errore. Ho visto il tuo silenzio. Ho visto i tuoi occhi tristi e gonfi abbassarsi, non per le lacrime, proprio come facevo io. Non ti chiedo di perdonarmi per non averti aiutata, ma ti prego: non rassegnarti. Non lasciare che il tuo cuore si spenga. Prendi tua figlia e vai via. Spezza questa catena che ti àncora all’infelicità… So che è difficile. So che hai paura. Ma tu puoi fare quello che io non ho avuto la forza di fare. Vivi, Maria. Non sopravvivere!”
Poso la lettera sul tavolo. Cammino verso lo specchio dell’ingresso. I miei passi sono lenti, incerti. Mi fermo e mi guardo di nuovo. Questa volta, con attenzione.
Tolgo gli occhiali. Lo specchio restituisce un’immagine che non posso più ignorare: un livido violaceo si allarga intorno al mio occhio destro. È il segno di ieri sera, l’ultimo schiaffo.
Per anni ho usato questi occhiali per nascondermi, ma ora non posso più fingere. Lo specchio riflette chi sono davvero: una donna spezzata, ma non ancora sconfitta. “Non sopravvivere,” ha scritto mia madre.
E così decido. Non tornerò a casa da lui. Non permetterò che mia figlia cresca nella menzogna.
Esco di casa, stringendo la lettera al petto, sotto il cappotto. La pioggia scivola su di me, ma per la prima volta sento il freddo come qualcosa di vivo. Mi incammino verso una nuova vita, portando con me il coraggio di mia madre misto al suo profumo di pulito.
Nota conclusiva
Il 25 novembre si celebra la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, istituita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1999. Questa data è stata scelta in memoria delle sorelle Mirabal, conosciute come Mariposa – Patria, Minerva e María Teresa – tre attiviste dominicane che lottarono contro il regime dittatoriale di Rafael Leónidas Trujillo. Le sorelle furono brutalmente assassinate il 25 novembre 1960, dopo essere state rapite, torturate e bastonate dai sicari del regime. Il loro sacrificio, però, divenne un simbolo universale di coraggio. Le Mariposa rappresentano tutte le donne che lottano contro la violenza, contro il silenzio e contro una società che spesso non le protegge. Raccontare significa dare voce alle troppe vittime e ribadire l’importanza di rompere il silenzio, perché nessuna donna debba più soffrire nell’ombra.