Anche solo a pronunciarne il nome, nella mente di tutti si affollano immagini terrificanti: di morte, di sangue, di carneficina, di odio. La guerra è l’“invenzione” più devastante dell’umanità; un’invenzione che ha molti padri, si può dire fin da quando l’uomo scese dagli alberi e fu capace di fabbricarsi una clava e usarla contro il nemico del momento. Guerra non è un termine che, come molti altri della nostra lingua, deriva dal latino, nel quale essa era chiamata bellum. La guerra, invece, è un termine tardo germanico medioevale, che deriva da werra ‘mischia’, ‘contesa’, ‘discordia’. Ed è molto simile all’inglese war. Triste a dirsi, non possiamo, al riguardo, che essere d’accordo con Kant nel suo Per la pace perpetua (1795), nel quale egli scrive: “Lo stato di pace fra gli uomini, che vivono gli uni a fianco degli altri, non è uno stato naturale (status naturalis), il quale è piuttosto uno stato di guerra, ossia anche se non sempre si ha uno scoppio delle ostilità, c’è però la loro costante minaccia. Esso deve dunque venire istituito; poiché l’assenza di ostilità non rappresenta alcuna garanzia di pace, e se questa garanzia non viene fornita a un vicino dall’altro (la qual cosa può avvenire solo in uno stato di legalità), il primo può trattare il secondo, a cui abbia richiesto questa garanzia, come un nemico”.
Assodato, quindi, che lo stato di pace non è un tratto essenziale della natura umana, comprendiamo, anche dalle parole di Kant, che esso può essere conseguito, o si può tentare di conseguirlo, solo contemperandolo con l’istituzione dello stato di legalità, all’interno del quale si può operare per ottenere, come scrisse Umberto Eco in un suo saggio del 1991: “L’idea principale è quella per cui è un «dovere intellettuale proclamare l’impossibilità della guerra». Anche se non vi fosse alternativa”. La riflessione di Eco è pertanto riconducibile alla necessità che gli esseri umani, in quanto creature razionali, riescano a far ricomprendere anche la guerra, qualunque ne siano le ragioni, nell’ambito del diritto e, quindi, regolamentarla. Nel percorso tracciato da Eco si inserisce, quasi contemporaneamente e con tutta l’autorevolezza che gli addice, anche Norberto Bobbio, che ne discettò estesamente in un suo pregevole saggio intitolato L’età dei diritti (Einaudi, 1990). L’interesse di Bobbio per l’argomento della pace e della guerra non è nuovo, egli se ne interessò infatti, dedicandovi un intero corso universitario, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale; iniziativa ripetuta a metà degli anni Sessanta, nel corso del grave frangente internazionale, nel quale il pericolo di una guerra atomica sembrava sempre più incombente (la crisi dei missili di Cuba era appena alle spalle); un frangente che aveva generato la convinzione che occorresse prendere sul serio la sfida che la possibilità di una guerra devastante lanciava anche, e forse innanzitutto, a chi si occupava di diritto.
La riflessione di Bobbio nel suo Lezioni sulla guerra e sulla pace si sviluppa attraverso la ricostruzione degli argomenti che lungo la storia sono stati elaborarti per la giustificazione della guerra, e la sua risposta è nota ed è netta: nessuna giustificazione tradizionale della guerra può resistere, e può essere quindi impiegata, di fronte alla possibilità di una guerra nucleare, argomento che, in questi ultimi giorni, contrariamente a quanto riteneva Bobbio, costituisce un quadro sempre più realistico di ciò che potrebbe accadere, perché sperare in una sorta di resipiscenza degli attuali attori del proscenio mondiale sembra veramente un’utopia. Ed è sempre a Bobbio che, nell’introduzione al suo L’età dei diritti, dobbiamo questa riflessione: “Il problema dei diritti [dell’uomo] è strettamente connesso a quello della democrazia e a quello della pace […]. Il riconoscimento e la protezione dei diritti dell’uomo stanno alla base delle istituzioni democratiche moderne. La pace è, a sua volta, il presupposto necessario per il riconoscimento e l’effettiva protezione dei diritti dell’uomo nei singoli stati e nel sistema internazionale. Nello stesso tempo il processo di democratizzazione del sistema internazionale, che è la via obbligata per il perseguimento dell’ideale della «pace perpetua», nel senso kantiano della parola, non può andare innanzi senza una graduale estensione dei diritti dell’uomo al di sopra dei singoli stati. Diritti dell’uomo, Democrazia e Pace sono i tre momenti necessari dello stesso movimento storico; senza diritti dell’uomo riconosciuti e protetti non c’è democrazia; senza democrazia non vi sono le condizioni minime per la soluzione pacifica dei conflitti […]. La democrazia è la società dei cittadini, e i sudditi diventano cittadini quando vengono loro riconosciuti alcuni diritti fondamentali; ci sarà pace stabile, una pace che non ha la guerra come alternativa, solo quando vi saranno cittadini non più soltanto di questo o quello stato, ma del mondo”.
Ritornando adesso a Kant e al suo Per la pace perpetua, è estremamente interessante ciò che egli propone, tenendo bene in mente il periodo di tempo nel quale egli scrive. Secondo lui “il primo articolo definitivo per una pace perpetua è che “in ogni Stato la costituzione civile dev’essere repubblicana”. Infatti egli spiega: “La costituzione fondata in primo luogo secondo i principi della libertà dei membri di una società (in quanto uomini), in secondo luogo secondo i principi della dipendenza di tutti da un’unica legislazione comune (in quanto sudditi), in terzo luogo, secondo la legge della loro eguaglianza (in quanto cittadini) — l’unica costituzione che deriva dall’idea del contratto originario su cui deve fondarsi ogni legislazione giuridica di popolo — è quella repubblicana”.
Parole illuminate che ci costringono a riflettere. Innanzitutto sul fatto che uno stato democratico dovrebbe ripudiare senza eccezione alcuna la guerra come strumento per la risoluzione dei conflitti o delle divergenze. Perché nel momento in cui un cittadino viene armato per combattere, viene meno in senso assoluto ciò che sta a fondamento di ogni regime democratico. Ovvero la sacralità della propria vita e il rispetto di quella degli altri. Il cittadino diventa omicida perché, sebbene la si voglia edulcorare con frasi melense e motti ad effetto come: “Chi per la patria muor vissuto è assai”, la realtà è che in guerra cessa di esistere la democrazia, ovvero il rispetto delle leggi, anche di quelle che fanno parte del codice penale. Durante le guerre la democrazia è morta, e al loro termine ne esce gravemente ferita, di ferite che potrebbero non guarire mai più. La costituzione repubblicana di cui parla Kant, dunque, per quanto riguarda il diritto, è in sé stessa quella che sta originariamente alla base di ogni tipo di costituzione civile; ora l’unica cosa da chiedersi è se sia anche l’unica che possa portare alla pace perpetua. Il ragionamento kantiano è esemplare. Egli afferma che “la costituzione repubblicana, oltre alla limpidezza della sua origine, il suo essere scaturita dalla pura sorgente dell’idea di diritto, ha anche la prospettiva di quell’esito desiderato, la pace perpetua. E la ragione è la seguente. Se (come deve per forza accadere in questa costituzione) per decidere “se debba esserci o no la guerra” viene richiesto il consenso dei cittadini, allora la cosa più naturale è che, dovendo decidere di subire loro stessi tutte le calamità della guerra (il combattere di persona; il pagare di tasca propria i costi della guerra; il riparare con grande fatica le rovine che lascia dietro di sé e, per colmo delle sciagure ancora un’altra che rende amara la pace, il caricarsi di debiti che, a causa delle prossime nuove guerre, non si estingueranno mai), rifletteranno molto prima di iniziare un gioco così brutto. Al contrario, invece, in una costituzione non repubblicana decidere la guerra è la cosa sulla quale si riflette di meno al mondo, poiché il sovrano non è il cittadino, ma il proprietario dello Stato, e la guerra non toccherà minimamente i suoi banchetti, i suoi svaghi, i suoi lussi. Se, per mera ipotesi, dovessimo chiedere ai cittadini se vogliono impegnarsi in una guerra perché altrimenti il nemico invaderà la nostra terra e ci priverà dei nostri diritti rendendoci schiavi, forse sarebbe legittimo il dubbio sulla risposta corale del popolo. In fondo si tratta della loro vita e di quella dei loro cari. Ma, se riflettiamo solo un istante e ci chiediamo, tirando in ballo quella che viene definita la più grande democrazia del mondo, gli Stati Uniti d’America, se qualcuno dei suoi presidenti (sovrani assoluti) ha chiesto il parere del popolo prima di mandare migliaia di cittadini a morire in Corea, in Vietnam, in Afghanistan, in Iraq e ovunque nel mondo, e non per difendere la “patria”, ma per difendere gli enormi interessi dei fabbricanti d’armi e il loro egocentrismo irrazionale, quale sarebbe la risposta? Si è mai chiesto qualche cittadino americano se la tragedia dell’11 settembre 2001 abbia qualche collegamento con gli eccidi e gli stermini compiuti dalle truppe americane nei paesi d’origine dei cosiddetti “terroristi”, e che quello era l’unico modo “per fargliela pagare”? Guerra, e pace, sono due argomenti strettamente collegati sui quali bisognerà ritornare perché, direttamente o indirettamente, riguardano tutti noi, cittadini del mondo. E ascoltare le voci illuminate della ragione degli autori citati e di molti altri, non può che essere un esercizio salutare.