Sul quando, come e perché sia nata la crisi della sinistra degli ultimi sessant’anni sono stati versati fiumi di inchiostro. Discussioni vecchie, nuove ed attuali con un unico e costante denominatore: la propensione fatale alle divisioni interne e alle scissioni, tutte indistintamente scaturite dal confronto tra le premesse ideologiche e le realtà politiche contingenti. Già agli albori degli anni Sessanta, cioè prima del ribellismo sessantottino, nascevano le formazioni scissioniste del Psiup (Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria), del Manifesto e del Pdup (Partito di Unità Proletaria). La loro antipatia per il centralismo democratico del PCI e talvolta per la sua sudditanza al PCUS sovietico, specie dopo l’invasione dell’Ungheria nel 1956, li avvicinò poi ai primi extraparlamentari raccolti intorno a Potere Operaio e a Lotta Continua. Gruppi, questi ultimi, che insieme alle Brigate Rosse, come già ricordato su questo giornale, furono (e lo sono tuttora) colpevolmente contrapposte all’estremismo di destra dall’establishment al potere e poi supinamente accolte, nell’uso corrente, con la fallace formula degli “opposti estremismi”: l’estremismo di destra fu in realtà vile stragismo con un saldo a suo carico di qualche centinaio di vittime innocenti causate da bombe e ordigni vari.
Alla stagione del terrorismo mise termine il delitto Moro, mentre dovette passare un’ulteriore dozzina di anni perché la magistratura si sollevasse contro il malcostume politico che aveva coinvolto tutti i partiti al potere. In questo arco di tempo il PCI aveva toccato l’apice del consenso popolare sotto la guida di Berlinguer ma, venuta meno con la scomparsa di Moro la prospettiva del compromesso storico, il PSI di Craxi si catapultò nell’area di governo con lo scopo di porre un argine ai cugini del PCI.
La stagione di Craxi ebbe, invece, una durata quindicennale drammaticamente troncata, insieme a quella degli altri partiti di governo, dalla Procura di Milano che diede avvio a “Mani Pulite”. L’entusiasmo del tanto atteso repulisti nella consolidata corruttela dell’area governativa durò poco: la vittoriosa ed inattesa discesa in campo di Berlusconi mutò drasticamente lo scenario. Con le sue uscite personalistiche, autoritarie e talvolta eversive, sostenute dall’impero mediatico gentilmente offertogli da Craxi, il Cavaliere di Arcore mise nell’angolo il PCI di Occhetto, costringendolo a correre su un terreno non suo. Per contrastare la spregiudicata propaganda berlusconiana e le sue inverosimili campagne elettorali, il PCI si vide costretto a rinunciare alla coerenza ideologica imbarcando alleati provenienti dalla DC, come Prodi, Mattarella, Gentiloni, Gerardo Bianco, De Mita (ma anche integralisti cattolici come la Binetti), mentre saltavano sul carrozzone della destra tanti altri orfani della DC, come Casini, Buttiglione, Mastella, Giovanardi, Pisanu, tanto per fare i nomi più noti. I reduci del PSI confluirono nella stragrande maggioranza verso il polo berlusconiano, a partire da Giulio Tremonti e Maurizio Sacconi che ricoprirono importanti incarichi di governo.
Il fronte unitario di centro sinistra, benché l’apertura verso gli ex democristiani comportasse palesemente qualche strappo alla laicità del PCI, riuscì ad imbarcare anche Rifondazione Comunista, formazione politica che già nella denominazione dichiarava un atteggiamento fortemente critico nei confronti del PCI. Ed infatti la coalizione di centrosinistra che vinse le successive elezioni durò poco per l’abbandono di Bertinotti, che provocò la caduta del primo governo Prodi, evento sciagurato per il futuro del Paese secondo un’opinione poco o per nulla discutibile. Da quel momento la storia del PCI e dei partiti suoi discendenti (Quercia, Ulivo, DS e così via fino all’attuale PD) è stata un susseguirsi di tentativi di contrastare Berlusconi. Anche quando ci riuscì, dando luogo al secondo governo Prodi, la sua già precaria costruzione fu fatalmente indebolita dal dissenso interno della sinistra estrema (Turigliatto e Rossi), e definitivamente affossata da Veltroni con annuncio che alla successive elezioni i DS si sarebbero presentati da soli con conseguente fuoriuscita di Mastella dalla coalizione nella quale era da poco, da buon pendolare, entrato.
Tirando le somme, in tutto il periodo di semi-regime berlusconiano la sinistra non ha mai avuto il tempo di realizzare i suoi programmi, sia pure ridimensionati dalla presenza della componente cattolica e moderata della sua coalizione, costantemente esposta al fuoco incrociato della sinistra “dura e pura” e delle bordate mediatiche sparate dalle corazzate berlusconiane. Anche la partecipazione della sinistra ai due governi tecnici, di Monti prima e di Draghi poi, fu duramente contrastata: qualcuno, anche tra gli stessi elettori, avrebbe preferito che si andasse ad elezioni anticipate, non si sa bene se con l’illusione di vincerle o di recuperare l’originaria natura ideologica nella speranza, altrettanto illusoria, di preparare, dall’opposizione, un’alternativa credibile per vincere le elezioni di là da venire. Nessun peso fu dato al senso di responsabilità che la sinistra dimostrò nei confronti di un Paese posto economicamente in serio pericolo dal populismo e dall’incompetenza della destra. Identica situazione si presentò poi quando la sinistra prestò il proprio appoggio, non dimentichiamolo, ancora una volta minoritario, al governo Conte 2. In tutte le circostanze appena ricordate l’azione di governo della sinistra fu condizionata dalla presenza nel governo di forze che nulla o quasi avevano a che fare con i suoi obiettivi politici, peraltro mai potuti esprimere con chiarezza (parole impronunciabili come riforma fiscale redistributiva, tassa sui patrimoni, reintroduzione dell’imposta di successione cancellata dallo statista Berlusconi, statista, questo sì, nel senso di attento al suo stato di famiglia).
Nel lungo percorso della sinistra furono commessi errori? Si, certamente a partire dalla sottovalutazione da parte di Occhetto del suo potente avversario e continuando poi con il velleitarismo di Veltroni fino all’affidamento del partito nelle mani di Renzi, che lo snaturò quasi del tutto. Altro discorso va fatto per ciò che la sinistra, una volta al governo, poteva fare e non ha fatto: una legge seria sul conflitto di interessi? Facile a dire ma di una complessità che avrebbe richiesto tempi ben più lunghi di quelli concessi dalle due brevi stagioni governative. Una riforma fiscale degna? Impossibile, pena la sconfitta a tutti gli appuntamenti elettorali successivi: guai a pronunciare la parola “patrimoniale”! Anche il lento ma progressivo allontanamento dal mondo operaio risultò inevitabile visto che, col venir meno della grande industria (Fiat, Italsider), sparivano anche i tradizionali centri di aggregazione (solo nel nordest della piccola e media industria la Lega riuscì a mantenere un forte radicamento nel territorio e tra i lavoratori). Anche i sindacati confederali, non più uniti nella “triplice” (la Uil appoggiava apertamente la destra), persero presa sui lavoratori e tuttora l’unità sindacale non si è ricostituita perché la CISL non si oppone al governo Meloni. In conclusione, perché questa lunga e spero non tediosa ricapitolazione della difficile convivenza all’interno della sinistra negli ultimi sessant’anni? Perché fa un po’ sorridere la santificazione di Berlinguer da parte di chi si è sempre posto come custode dell’ortodossia “di sinistra”, come Bertinotti, tuttora elegante frequentatore dei salotti televisivi, e le neoformazioni tipo “Potere al Popolo”, “Pace, terra e dignità”. Nelle memorie dirette o acquisite da parte di questi celebranti c’è posto per ritenere che l’eventuale incontro tra il PCI di Berlinguer e la DC di Moro non dovesse comportare anch’esso sacrifici ideologici? Il “Compromesso storico” sarebbe stato comunque un compromesso tant’è che Moro, per renderlo digeribile, dovette inventarsi l’assurdo geometrico delle “convergenze parallele”. Non ci cascarono né i russi, né gli americani, né i suoi non pochi nemici interni.