Chi, come me, non è più nel fiore degli anni ed ha seguito anche se distrattamente le vicende del nostro Vecchio Continente, non può non ricordare quello che inizialmente fu definito Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto, che poi fu definitivamente chiamato Manifesto di Ventotene. Si trattava di un documento per la promozione dell’unità politica europea scritto da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni nel 1941 durante il periodo di confino presso l’isola di Ventotene, nel mar Tirreno, per poi essere pubblicato da Eugenio Colorni, che ne scrisse personalmente la prefazione. È oggi considerato uno dei testi fondanti dell’Unione europea.
Mentre il precedente Pan-Europa, scritto da Kalergi nel 1922, auspicava un’unione europea a guida tecnocratica, il Manifesto di Ventotene prefigurava la necessità per l’ideologia europeista di istituire una federazione europea dotata di un parlamento e di un governo democratico con poteri reali in alcuni settori fondamentali, come economia e politica estera. Le parole conclusive del Manifesto erano: “La via da percorrere non è facile né sicura, ma dev’essere percorsa e lo sarà”. Nel periodo in cui fu redatto, l’Europa era lacerata dal più grande conflitto di tutti i tempi, la Seconda Guerra Mondiale, ed era perciò logico che qualcuno auspicasse un’Europa unita e libera, vagheggiata da un ex comunista, da un socialista e da un liberale al confino, negli anni bui della dittatura fascista. Le condizioni in cui fu scritto furono a dir poco avventurose: vergato su cartine di sigaretta arrotolate in comunissime scatole di fiammiferi, evocava un’Europa dei Lumi, in cui gli stati nazionali non sarebbero più stati portatori di guerra ma di pace. Non erano più sovrani assoluti ma democratici, capaci di convivere in una federazione europea in cui la giustizia sociale e le libertà individuali sarebbero state la grammatica comune per tutti i cittadini europei. Utopia? Certo, in quel momento lo era. E, a ben guardare, lo è ancora.
L’Europa, “tradita” da una lunga e inarrestabile deriva tecnocratica, sembra oggi aver smarrito la grande spinta ideale che ha alimentato per sette decenni il “sogno europeo”. I nazionalismi, retaggio di una storia che sembrava definitivamente chiusa, riprendono vita e coltivano l’ambizione di mettere fine all’utopia europea. Come nel 1941, la strada verso un’unione politica appare di nuovo sbarrata dagli alti muri che una prepotente retorica nazionalista sta costruendo intorno alle nostre democrazie, con nuove esclusioni e nuove divisioni. Il nostro mondo, la nostra vecchia, cara Europa, sembra andare, ancora una volta, dall’altra parte. Ma siamo davvero ai titoli di coda del progetto europeo, così come lo avevano immaginato Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni? Nadia Urbinati, docente di Teoria politica alla Columbia University e autrice di un interessante volumetto intitolato per l’appunto Utopia Europa (Castelvecchi, 2019), in un’intervista racconta quanto segue: “Il progetto più utopistico è anche quello più realistico. Il Manifesto di Ventotene è più realistico oggi di quanto non lo fosse nel 1940, e soprattutto è più pragmatico di quello che ha governato finora l’Unione”.
Noi, cittadini europei di questo XXI secolo, sembra che abbiamo dimenticato del tutto le nostre radici, quelle di un continente al quale tutto il mondo dovrebbe essere riconoscente per ciò che ci ha dato nel corso dei secoli. Purtroppo, e ormai da troppo tempo, essa è caduta nelle mani meno adatte per riscoprirne i fasti, riducendola ad un continente di serie “B”, nel quale al potere sono assurti individui senza arte né parte, guidati soltanto dal desiderio di potere e sopraffazione. Non più orgogliosi del nostro retaggio, ci siamo, forse senza rendercene conto, sottomessi a nazioni come gli Stati Uniti di Trump e di Musk, alla Russia di Putin, alla Cina di Xi-Jnping. Stiamo parlando di nazioni, in particolare gli Stati Uniti, la cui storia non può nemmeno lontanamente vantare un passato glorioso, sotto ogni aspetto, come quello che invece definisce l’Europa. A questo proposito vorrei menzionare un interessante volume di Federico Rampini, noto collaboratore di Repubblica, che lo ha intitolato Grazie, Occidente! (Mondadori, 2024). Per troppo tempo lo abbiamo vituperato, confondendo l’Occidente tutto con l’Europa. L’Europa è l’Occidente nel senso più pieno perché, quando in America ancora circolavano i nativi e poi, con il trascorrere del tempo, dopo averli sterminati, milioni di europei si riversarono in essa, al punto che gli italiani o i loro discendenti, gli irlandesi, gli scozzesi e miriadi d’altri immigrati ne hanno riempito città e villaggi, quella degli Stati Uniti è un’accozzaglia di tradizioni, di dialetti, di cultura europea perché ben pochi americani possono dire di aver contribuito alla cultura del mondo quanto l’Europa, che ha generato i più grandi in tutti i campi, dagli scienziati come Einstein ai grandi compositori, alle grandi menti della letteratura, del teatro, della narrativa. E, come afferma Rampini: “È ora che qualcuno lo dica: «Grazie, Occidente!». Ma sono due parole che non incontrerete altrove. Tutto il bene che abbiamo fatto, a noi stessi e agli altri, è il supremo tabù di questa epoca. Nelle scuole non si insegna più la vera storia del progresso, che è nato a casa nostra, e dove ha avuto un ruolo anche l’Italia … È ora di ribellarsi, in nome della verità. Cinesi o indiani, brasiliani o africani, il mondo è popolato da miliardi di persone che devono la loro esistenza … a noi. La scienza occidentale (europea in primis), pensiamo alla nostra medicina e alla nostra agronomia, è stata copiata e applicata dal resto dell’umanità con benefici immensi. Se la longevità è aumentata, la mortalità infantile è crollata, il livello d’istruzione è cresciuto nel mondo intero, è perché l’Occidente, con in prima fila l’Europa, ha esportato progresso”. Rampini, nel suo voluminoso scritto approfondisce quel che l’Occidente è stato davvero per l’umanità. Quali tratti originali della nostra civiltà hanno fatto sì che da mezzo millennio il progresso nasca qui e non altrove.
A far da contraltare al lavoro di Rampini c’è quello di Piergiorgio Odifreddi, altro autore internazionale, che all’Occidente ha dedicato un libro che sembra dire tutto il contrario, lo ha infatti intitolato C’è del marcio in occidente (Raffaello Cortina, 2024). Si tenga, però presente che l’occidente di cui lui parla sono principalmente gli Stati Uniti, nel cui mito lui crebbe, dei soldati americani “liberatori”, ma del quale si libererà assistendo alla serie infinita di guerre, grandi e piccole, che hanno costellato la storia del Nuovo Mondo nel XX e XXI secolo, e che lui accusa d’esserne diventati “i padroni con il loro sfruttamento economico, embargo commerciale, occupazione militare”.
Ritornando all’inizio ci chiediamo: c’è ancora spazio per un’Europa democratica? Secondo Nadia Urbinati non solo lo spazio c’è, ma è anche l’unica via per salvare allo stesso tempo il grande progetto di un’Europa unita e difendere le nostre democrazie nazionali. La sinistra può contribuire (non è del tutto morta, come dimostrano le recenti elezioni in Emilia Romagna e in Umbria) al rilancio europeo, a questo punto solo alzando il livello della sfida, riconoscendo l’Europa come quella naturale scelta di campo che aveva indicato Spinelli. E riscoprendo quella che era ed è ancora un’utopia. Perché la via da percorrere non è facile né sicura, ma è comunque, e proprio per questo, entusiasmante, come le sfide politiche che le democrazie affrontano e, in alcuni casi come questo, scelgono. Non dimentichiamo che l’idea di unire i paesi europei in una pòlis comune, per evitare l’insorgenza di nuove guerre, è stato un progetto, a tratti utopico, coltivato fin dal Settecento, una lunga storia, tutta europea, che riceve un’accelerazione e una trasformazione importante nel Novecento, a livello di idee e di progetti, prima ancora dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Noi siamo eredi di grandi tradizioni illuministe, eredi di Beethoven, di Verdi, di Newton, di Galileo, di Marconi, di Fermi, di Volta, di Leonardo, di Copernico, di Darwin, e potremmo continuare all’infinito. Siamo orgogliosi, quindi, della nostra Europa; cacciamone chi la svilisce per i suoi propri turpi interessi e torniamo a cantare l’inno alla gioia, orgogliosi di essere europei!