È una parola che suscita brutte sensazioni e di solito si applica ad alcuni brutti sogni che ogni tanto agitano le nostre notti, ma, fortunatamente, il risveglio fa svanire tutto e ciò che rimane è solo uno sgradevole ricordo. Ma cosa accadrebbe se un incubo diventasse realtà e nessun risveglio riuscisse a cancellarlo? È ciò che ci spiega una giornalista pluripremiata e di grande prestigio, Naomi Klein, che all’argomento ha dedicato un libro, nel cui titolo appare la frase “L’incubo Trump e il futuro della democrazia”. Il libro risale al primo mandato presidenziale di “The Donald”, ma il suo contenuto è oggi attuale più che mai, adesso che al plurimiliardario rosso chiomato è stato conferito — a furor di popolo — un secondo quadriennio di presidenza e che, nel frattempo il personaggio in questione non ha riscattato in alcun modo il triste retaggio del suo primo governo anzi, dalle sue dichiarazioni e dalle sue azioni, emerge chiaramente che non potremo aspettarci niente di meglio.
La domanda che in molti ci poniamo è: com’è possibile che un personaggio del genere, per di più con molti anni sul groppone, anni che per la maggioranza delle persone sono l’età della pensione e del riposo, abbia invece voluto, riuscendoci, dare avvio a un’avventura che coinvolgerà non solo gli Stati Uniti, ma anche il resto del mondo? Cos’è accaduto alla massa degli americani (solo metà dei 187 milioni di aventi diritto al voto) che si sono recati a votare? Cos’hanno visto in Trump, o cosa sperano da lui tanto da affidargli ancora una volta la guida del loro paese? Per capire, o cercare di capire ciò che è successo, sarebbe utile la lettura di Elegia americana di J.D. Vance, senatore degli Stati Uniti e adesso vice presidente di Trump. La sua lettura ci aiuta a capire alcune delle ragioni che hanno portato al successo di Trump. Lo ha votato un’America ferita e, come spiega Maurizio Molinari su Repubblica, “per comprendere da dove viene l’onda popolare che ha riportato Trump alla Casa Bianca bisogna entrare dentro le ferite dell’America: dai centri per senzatetto, alle drogherie, dai campus universitari ai quartieri più insicuri delle aree urbane”.
Questo viaggio nell’America profonda ne mette allo scoperto le sue piaghe, prima fra tutte un’inflazione che flagella implacabilmente le fasce meno abbienti della popolazione, ma che colpisce praticamente tutti: bianchi e minoranze, donne e uomini, giovani e anziani, ed è questa piaga, che ha innescato ovunque la protesta dal basso, che ha deciso l’esito del voto. Inoltre, l’America ha paura. La violenza dilaga dappertutto, alimentata dall’incertezza di un futuro che si presenta sempre più cupo. Elegia americana ci aiuta a capire le motivazioni che hanno indotto gli “hillibilly” bianchi (bifolchi, nel titolo originale) a questo voto di protesta, e questo perché la situazione attuale in America è quella di un completo rovesciamento delle parti. Sono i bianchi, questi bianchi ad essere adesso emarginati. Vengono anche definiti White trash, spazzatura bianca, e sono loro che hanno visto in Trump un difensore. Vance, il suo vice, li conosce ancora meglio del suo capo, poiché da bambino e da ragazzo era uno di loro. I suoi genitori e i suoi nonni appartenevano a quel mondo. All’impoverimento economico di questi bianchi si è aggiunta da molti decenni una marginalizzazione che forse pesa perfino di più: quella culturale, valoriale, razziale, da parte della sinistra. Tutto ciò che appartiene al mondo degli hillibilly o redneck è diventato spregevole per un’élite globalista, multietnica, laicista e, come ha riflettuto lo storico Walter Russell Mead, “Molti americani bianchi si trovano in una società che parla costantemente dell’importanza delle identità, che valorizza l’autenticità etnica, che offre aiuti economici e sostegni sociali sulla base dell’identità — per tutti fuorché per loro … hanno visto il declino secolare dei bianchi che viene percepito come un progetto deliberato per trasformare la composizione dell’America. Hanno visto l’immigrazione come parte di un tentativo determinato e consapevole per marginalizzarli nel loro stesso paese”. E Trump, pronto a cogliere gli umori popolari, ha basato la sua campagna battendo forte sul tasto dell’immigrazione. Per lui sono un serio problema i milioni di migranti già entrati negli Stati Uniti, e una promessa ribadita più volte nel corso della sua campagna è quella di espellerli lanciando “la più grande deportazione della nostra storia”. Ma c’è un’altra promessa che il Tycoon vuole mantenere, ed è quella che riguarda il clima, cioè riguarda tutti gli abitanti della terra, perché le correnti d’aria non conoscono confini. Chi segue le cronache sa bene che Trump è un negazionista climatico ed è quindi pronto a ritirare di nuovo il suo Paese dagli accordi di Parigi sul clima. Vuole rilanciare le perforazioni per produrre più petrolio e gas, per diventare la potenza mondiale dominante del settore, così spera di far scendere i prezzi di tutti i beni al consumo e quindi l’inflazione, che sta erodendo i risparmi di tutti. E mentre essa diminuisce, aumenterà esponenzialmente l’inquinamento atmosferico.
L’America di una volta, il paese dei sogni, delle libertà, delle grandi opportunità non esiste ormai più da tanto tempo. L’America dei grandi film della prima metà del secolo scorso, che ce l’hanno fatta amare e invidiare, e che hanno fatto vedere quella terra come la meta più ambita, dove anche un povero immigrato poteva diventare milionario, non esiste più, e da un pezzo. Una sociologa, Arlie Russell Hochschild in un suo libro, Stranger in Their Own Land, esplora la frustrazione, il risentimento, il rancore che covano nell’elettorato popolare, e la condizione in cui versa il Paese viene rappresentata — anzi vissuta nella deep story, la narrazione profonda che ciascuno si crea — come una fila sempre più lunga di masse che aspirano ad accedere all’American Dream, ma che procede sempre più lentamente, mentre ci sono categorie appena arrivate che passano davanti a tutti, si avvalgono di aiuti per le minoranze, sorpassano nella fila i bianchi poveri a cui nessuno presta attenzione. Donne, neri, ispanici, profughi, immigrati illegali, ciascuno ha diritto a “quote”, agevolazioni per promuoverne l’ascesa, mentre i bianchi rimangono sempre più esclusi, e questo è cagione di un malessere profondo che in ultima analisi ha portato alla vittoria di Trump. Potremmo definirlo un voto di protesta, di una classe che una volta era benestante e che ora è costretta a vivere di sussidi, quando le spettano, e che vive in uno stato di profonda frustrazione. In estrema sintesi, l’elezione di Trump è il ritratto di una nazione in declino, e lui, per quanto sia estremo, non è tanto un’aberrazione quanto una conclusione logica, un misto di quasi tutte le peggiori tendenze dell’ultimo mezzo secolo. Trump è il prodotto di potenti ideologie che valutano la vita umana in base a razza, religione, gender, tendenze sessuali, apparenza fisica e capacità fisiche, e che hanno usato sistematicamente il colore della pelle come arma per imporre brutali politiche economiche sin dai primi giorni della colonizzazione nordamericana e dalla tratta transatlantica degli schiavi. È anche l’incarnazione della fede che i soldi e il potere garantiscano la licenza di imporre agli altri la propria volontà, che questo diritto si esprima nel modo in cui afferri le donne o afferri le risorse limitate di un pianeta sull’orlo di un riscaldamento catastrofico, che il neo presidente si intestardisce a negare.
Perché interessarci tanto, dunque, a ciò che è avvenuto e che avverrà in America? Perché, e dobbiamo dire purtroppo, il presidente degli Stati Uniti influenza tutti gli abitanti della terra. Nessuno può dirsi al riparo dalle attività della più grande economia del mondo, del secondo produttore di gas serra del mondo e della nazione con il più grande arsenale militare oggi esistente. Donald Trump e i suoi compagni di viaggio devono essere considerati per quel che sono, ovvero il sintomo di una grande malattia che si può curare soltanto unendo le nostre forze, in primis le forze di un’Europa le cui profonde divisioni non fanno che rafforzare il suo potere e indebolire il nostro. L’Europa è al centro dei due grandi contendenti, la Russia di Putin e gli Stati Uniti di Trump, e l’ascesa nel vecchio continente di forze populiste, come il nostro attuale governo, o la Francia di Le Pen, o la Germania di Scholz, in piena crisi economica, con un’Inghilterra che è ritornata fautrice della Brexit con il suo nuovo primo ministro, non rappresenta più un elemento determinante negli assetti mondiali, nei quali la Cina, in piena espansione economica, detta regole e invade sempre di più i mercati. Ciò che abbiamo descritto è, evidentemente, solo un quadro parziale della difficile situazione che ormai da tempo affligge il nostro pianeta, con le crisi meteoriche, politiche, economiche che sempre con più frequenza lo colpiscono. Ecco perché è necessario che al più presto si riesca ad uscire da questo incubo, aggravato dall’elezione di Trump, e si riscopra l’orgoglio di essere europei, figli di un continente che più di ogni altro ha contribuito a scrivere la storia del mondo in cui viviamo.