Quel che resta

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Enrico Berlinguer (fonte: Wikipedia)

Un film è un prodotto culturale, un bene culturale. Almeno chi lo realizza a ciò dovrebbe mirare e non solo a far cassa. Un film è opera collettiva ordinatamente diretta, altrimenti i meriti e i demeriti di chi ha contribuito alla sua realizzazione emergerebbero disordinati disturbando la visione. A volte il connubio tra i diversi elementi, e l’originalità dell’idea che li tiene insieme, è tale che un film assurge al rango di opera d’arte, visionaria, preveggente, unica, irripetibile, inimitabile. In ogni caso in grado di suscitare emozioni e riflessioni, che non passa come un semplice guizzo di luci e suoni. Caratteristiche che travalicano l’incasellamento per genere, per categorie.

Anche un docufilm, quando narra di storie vere vicine o lontane nel tempo, può avere alcune di queste caratteristiche. Allora anch’esso diventa un bene culturale da difendere e tutelare. Tutto il resto è noia, spreco di soldi e di intelligenze, uno dei tanti prodotti a vita breve che vanno in discarica ad aumentare la mole dei rifiuti che produciamo. Attenzione però, perché anche il più rigoroso dei documentari non lo si potrà mai portare in tribunale. Non sarà mai documento, prova, ma ricostruzione a partire dalla sensibilità dell’autore.

Berlinguer-La grande ambizione, ilfilm diretto da Andrea Segre da pochi giorni nelle sale cinematografiche, è un gran bel film e quando si è seduti in sala si assapora il piacere dell’arte del racconto. Un film corale nella sua delicatezza, dalla scrittura a quattro mani di Marco Pettenello e del regista Andrea Segre allo straordinario montaggio di Jacopo Quadri, che ha saputo destreggiarsi con una gran mole di documenti originali, a tutti gli attori che con discrezione interpretano ruoli senza provare ad imitare i personaggi reali. Abbiamo visto il film in una piccola sala, quelle in cui si relegano i film che si presume facciano poco incasso, invece gremita di un pubblico in maggioranza giovane. Gremita e silenziosa e alla fine, spontaneo e commosso, è partito un grande applauso.

Berlinguer è morto in trincea, era sul palco e aveva 62 anni. Era il 1984, quarant’anni fa. Nello scorrere tumultuoso del tempo nei nostri anni, dove tutto sembra invecchiare rapidamente, 40 anni sembrano molti, moltissimi. Se però si osserva quanto sia lunga la vita politica di dirigenti e formazioni, quanto siano permanenti e irrisolte questioni essenziali per le nostre società, la guerra e la pace, sviluppo economico, distribuzione della ricchezza, lavoro, diritti delle persone, difesa delle libertà individuali e collettive, i quarant’anni che ci separano da quei fatti ci sembrano meno lontani. E grazie ai progressi della medicina, molti di quei protagonisti di quegli anni sono ancora qui, molti ancora pensanti, altri meno. Da questo punto di vista va riconosciuto agli autori, agli attori, alla produzione del film La grande ambizione un coraggio fuori dal comune. Non a caso sono piovute critiche, puntualizzazioni storiografiche, tante dichiarazioni tipo le cose non sono andate esattamente così. Ma ciò fa parte di quel malcostume della sinistra italiana, divisivo e settario, che da decenni, da dopo Berlinguer ma anche prima, l’ha portata alla sua lenta e, a quanto pare, definitiva scomparsa dalla scena politica e culturale.

Andrea Segre è stato bravo nel saper cogliere un tratto distintivo di un decennio della storia italiana. Il rimescolarsi delle carte, il sorgere di un desiderio collettivo di governare le proprie vite, di misurarsi con l’ambizione di avere nuovi desideri, di esprimere i propri bisogni ma rimanendo attenti ai bisogni degli altri. Si cercava, Berlinguer cercava, una strada per non trasformare tutto in un banale, distruttivo consumismo. Nel film si torna più volte su questo aspetto. In una piccola scena, quasi un frammento, durante una visita in una delle tante sezioni, Berlinguer è avvicinato da un ferroviere, un controllore, iscritto al partito. Come comunista è orgoglioso di svolgere bene il suo lavoro, ma da tempo è entrato in crisi, incrocia tanti giovani che viaggiano senza biglietto e non sempre fa loro la multa. La sua moralità è messa in crisi e si giustifica con il Segretario dicendo i giovani devono muoversi, viaggiare, anche se non hanno i soldi per il biglietto del treno. Sembra chieda l’assoluzione al Partito, al suo Segretario.

Quanta poesia nella sobrietà della vita familiare del Segretario. Cinquantamila lire conservate in un libro, L’accumulazione del capitale di Rosa Luxemburg, l’auto blindata realizzata da un compagno. Il film non sottace, non nasconde le grandi trame eversive. Il fallito attentato al Segretario in Bulgaria, e poi Andreotti, Moro, le BR, ma la forza del film è di riuscire a non intrappolare la narrazione nella denuncia dei crimini eversivi da tempo ampiamente accertati dalla magistratura e dagli storici di professione. Certo sui suoi nemici interni, sulle trame oscure nella direzione del partito, non dice molto. Ma il titolo del film è esaustivo su questo: La grande ambizione.

Governare un processo per realizzare in Italia un socialismo democratico. Un processo che è stato sanguinosamente arrestato. Il film è la storia di una sconfitta di un progetto politico. Per questo non c’è spazio per nostalgie. Non a caso il film inizia con la cronaca breve del golpe in Cile, nel 1973, dove i militari golpisti di Pinochet, armati e diretti dalla Cia, uccisero Allende, il presidente socialista democraticamente eletto. Quel drammatico fatto segnerà profondamente Berlinguer che, a capo del più grande partito Comunista dell’occidente, teme la possibile reazione americana e delle forze golpiste italiane incarnate in una parte della Democrazia Cristiana. In Italia quelle forze si mossero contro il progetto di socialismo democratico uccidendo Moro. Colpire direttamente Berlinguer, come ci provarono i gretti bulgari, avrebbe potuto scatenare una sommossa popolare. Un golpe strategico. Forse da questo bisognerebbe ricominciare a discutere e non, come ha fatto Nanni Moretti, ricordando agli autori che, se avessero avuto vent’anni in quegli anni, avrebbero odiato il “compromesso storico” proposto da Berlinguer. Gli autori del film sono nati in quegli anni e quindi non ne hanno memoria diretta. Un dato anagrafico che ha giocato a favore della forza del film che riesce a comunicare con i più giovani, a riproporre storie poi non così tanto lontane. Anche a noi anziani il film non concede spazi per la nostalgia. “Ci battiamo”, diceva Berlinguer,“per una società che rispetti tutte le libertà, meno una: quella di sfruttare altri essere umani, perché questa libertà tutte le altre distrugge e rende vane”. Ambizione sua governare il processo, ambizione di tanti italiani in quegli anni di raggiungere l’obiettivo. Un popolo in fermento, in movimento che in buona parte si riconosceva direttamente nel PCI, vi si iscriveva, ma che attraversava tutta la società, tante formazioni politiche e culturali. I consigli di fabbrica, i consigli e i comitati di quartiere, i collettivi studenteschi. Tanti luoghi affollati di persone e di idee che per Segre esistono ancora. Su questo siamo più pessimisti.  Tornando al film, con Segre non ci troviamo di fronte ad una rappresentazione agiografica, di un mito da venerare. È riuscito a rappresentare Berlinguer anche nelle sue lacerazioni umane e politiche. Lo ha mostrato per quello che era: un uomo con l’ambizione di parlare ad un Paese, non solo ai suoi fedeli compagni di partito da cui stava imparando a difendersi senza riuscirci. Quella rappresentata al cinema è la storia di una sconfitta collettiva. Discutere di quegli anni con ancora il puntiglio di rimarcare le differenze come se si stesse in una sessione congressuale, in un dibattito filosofico senza affrontare la questione drammatica che scesero in campo allora forze militari potenti che, uccidendo Moro, uccisero un processo politico ed economico di cui non c’è stato possibile valutare gli esiti perché troncato nel sangue, è cosa inutile. Per questo il film di Segre non può considerarsi nostalgico, perché non si può avere nostalgia di un movimento, di un mondo che si sarebbe voluto realizzare e che non si è realizzato. La Grande ambizione del film non è solo quella di Berlinguer ben rappresentata, ma anche quella degli autori di spingere tutti ad uscire dai nascondigli, dalle trappole della memoria per osservare il mondo contemporaneo pensando che forse varrebbe la pena riprovarci. Uno stimolo a cercare nuove possibili strade. Per questo ci auguriamo che in molti vadano a vedere al cinema questo film per ridare aria ai propri polmoni e alle proprie idee e pensieri ormai soffocati dai miasmi che oggi avvolgono la politica e la società italiana, purtroppo non solo quella italiana.

1 commento su “Quel che resta”

  1. Film da vedere e rivedere più volte, la sua rappresentazione è parte della nostra storia. Questo film dovrebbero vederlo tutti i politici in special modo quelli di sinistra, imparate, imparate dagli uomini che hanno fatto seriamente politica, politica per tutti, senza il tornaconto personale. Grazie Giuseppe Capuano, articolo scritto come sempre in maniera chiara ed esaustiva.

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