Si è riacceso nei giorni scorsi lo scontro tra Elly Schlein e Vincenzo De Luca che rivendica il diritto di correre alle prossime elezioni pur avendo già governato la Regione Campania per due mandati consecutivi. A questo scopo De Luca ha ottenuto i voti consiliari necessari ad approvare una legge che gli permetterà di ricandidarsi argomentando che la legge nazionale che lo vieta è stata recepita dalla Regione Campania nel corso del suo secondo mandato, circostanza in base alla quale la prossima candidatura sarebbe la seconda e non la terza. Sulla questione si aprirà inevitabilmente un contenzioso il cui esito al momento è imprevedibile.
Aldilà della possibile pretestuosità della visione dello “sceriffo col lanciafiamme”, alcune considerazioni non sono eludibili e riguardano essenzialmente la posizione della dirigenza nazionale del PD giustamente intenzionata ad allargare l’area dell’opposizione progressista.
In un precedente pubblicato su questo giornale col titolo “Da movimento a partito?” sottolineavo (mi si perdoni l’autocitazione), con riferimento alla limitazione a due soli mandati parlamentari predicata dal M5S, quanto segue: “In essa si adombra una sorta di presunzione di colpevolezza (l’opposto della presunzione di innocenza garantita dalla Costituzione) dando per scontato che una troppo lunga permanenza nella carica parlamentare possa costituire la premessa di comportamenti dolosi, senza considerare invece lo spreco delle esperienze acquisite negli anni: quando la politica italiana era ancora guardabile, si apprezzavano i parlamentari di lungo corso, almeno quelli non chiacchierati”.
Ma questa considerazione non vale per le cariche esecutive elettive come quelle dei presidenti di regione e dei sindaci. Sul sito “Il Mulino” lo scorso 17 gennaio il giurista Nicola Lupo pubblicava infatti un articolo nel quale, respingendo, tra le altre, le motivazioni a suo avviso pretestuose con cui i politici sostenevano la validità della terza candidatura anche nelle cariche esecutive elettive, obiettava: “Chi usa questo argomento trascura un elemento macroscopico: ossia, che vi è una profonda differenza tra la titolarità della carica di vertice di poteri esecutivi e quella di mandati rappresentativi all’interno di assemblee elettive. Il rischio di concentrazione e di personalizzazione del potere è molto ridotto nel secondo caso, mentre appare elevato per i vertici dell’esecutivo, soprattutto allorquando questi siano eletti direttamente dai cittadini e possano perciò fondarsi su una legittimazione di tipo popolare. Quest’ultima risulta perciò invocabile a supporto delle decisioni che essi assumono, in solitudine o in seno all’organo collegiale da essi presieduto, con una radicale differenza rispetto ai singoli parlamentari, che quella legittimazione popolare possono sì vantare, ma soltanto al fine di sostenere la loro azione rappresentativa quali componenti di un collegio ampio e per definizione pluralistico”. Seguiva poi un estratto della sentenza n. 60 del 2023 della Corte Costituzionale che sottolineava tra l’altro come la rimozione del limite vanificasse “fondamentali diritti e principi costituzionali: l’effettiva par condicio tra i candidati, la libertà di voto dei singoli elettori e la genuinità complessiva della competizione elettorale, il fisiologico ricambio della rappresentanza politica e, in definitiva, la stessa democraticità degli enti locali”.
L’autore dell’articolo concludeva poi ricordando come l’esperienza abbia confermato l’opportunità della limitazione, richiamando «la vicenda dei “primi” presidenti di Regione eletti direttamente nel 2000 in due Regioni importanti, quali la Lombardia e l’Emilia-Romagna (Roberto Formigoni e Vasco Errani, peraltro già titolari della carica di vertice l’uno dal 1995, l’altro dal 1999). Ebbene, in entrambi i casi la permanenza anche oltre i due mandati direttamente eletti si rivelò foriera di problemi e di inchieste giudiziarie, conclusesi con esiti diversi, la condanna per il primo e l’assoluzione in appello per il secondo”.
Ora, con tutto il rispetto per il giurista Lupo e, a maggiora ragione, per la Corte Costituzionale, può un libero pensatore ossessionato dal diavoletto della critica a tutti i costi, immaginare, prendendo spunto proprio dai casi Formigoni ed Errani, che l’operato di un presidente di regione dovrebbe essere innanzitutto sotto il mirino dell’opposizione consiliare, della magistratura e degli elettori se dovesse commettere azioni fraudolente? Non è compito della prima denunciarle, della seconda farne oggetto di indagine giudiziaria e degli elettori trarne le debite conclusioni? Lasciando ai giuristi di professione le contestazioni in punta di diritto di questa che rimane una curiosità dilettantistica, sarebbe giusto che la Schlein, contraria alla terza (o seconda?) candidatura di De Luca ma disperatamente votata all’allargamento dell’opposizione di sinistra, valutasse l’utilità di agevolarne gli intenti, per non correre il rischio di consegnare alle destre anche la Campania? Wikipedia dedica a De Luca una voce insolitamente lunga e dettagliata dalla quale si rileva la sua fedeltà alla sinistra, malgrado la libertà di azione sempre rivendicata, ma soprattutto offre una griglia leggendo la quale si ha nozione di tutte le vicende giudiziarie che lo hanno coinvolto. Ebbene, a conti fatti, tra procedimenti archiviati, assoluzioni con formula piena, una prescrizione, emergono solo una condanna in primo grado ed una in appello nonché condanne della Corte dei Conti per danno erariale, mentre sono tuttora in corso un procedimento per falso in atto pubblico ed uno per danno erariale. Ciò non assolve De Luca dai comportamenti spesso familistici e spregiudicati, ma nemmeno delinea il quadro delinquenziale sventolato dai suoi numerosi avversari. La Schlein dovrebbe ben valutare se la sua rispettata ed apprezzata coerenza ideologica ed etica le renda più digeribile l’alleanza con Calenda e Renzi, due ondivaghi perdenti cronici, portatori di contributi elettorali molto modesti e non piuttosto quella pragmatica col discusso ma vincente Vincenzo De Luca.