La resa dei conti

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Ciò che avvenne a Washington il 6 gennaio 2021 fu un fatto senza precedenti nella storia moderna americana. Se fosse accaduto al tempo della Rivoluzione Francese, o di quella russa, forse avremmo ancora potuto capirlo, se non giustificarlo, ma che quei fatti avvenissero nella nazione che si ritiene la culla della democrazia, un faro per il mondo, e l’esempio da cui tutti dovrebbero trarre ammaestramento, rappresenta un vulnus preoccupante inferto al tessuto profondo della nazione americana, ed anche un precedente inquietante per chi, nel mondo, guarda ancora agli Stati Uniti come a un faro di luce e di civiltà. Cosa siamo stati costretti ad osservare in quella circostanza? Anche se a qualcuno potrà sembrare eccessivo, ritengo che quell’episodio rappresenti in sostanza il più grave colpo inferto al tessuto democratico della nazione che si vanta di essere la più potente del mondo. In poche parole i fatti: il presidente uscente, Donald Trump, non riusciva a rassegnarsi di non essere stato rieletto e asseriva che la vittoria di Joe Biden fosse frutto di brogli (esattamente come ha detto per tutta la campagna elettorale). Per cui scatenò le folle e si diede l’assalto al tempio della democrazia americana: il Campidoglio, sede delle due camere degli Stati Uniti. Ciò a cui il mondo assistette in quella circostanza ricordava più la presa della Bastiglia, in Francia, o la presa del Palazzo d’Inverno in Russia, ma certamente non un evento che potesse essere ascritto alla storia della nazione guida delle democrazie del mondo.

L’evento non è lontano e molti di noi hanno ancora negli occhi le immagini dello scempio che fu fatto nei locali dell’edificio, e dell’intervento delle forze dell’ordine per sedare la rivolta. Negli Stati Uniti non era mai successa una cosa simile: uno scoppio di violenza incontrollata guidato e alimentato da quello che in quelle ore era ancora il presidente del paese. Per un po’ non sembrò più di essere nella nazione di Kennedy, di Lincoln, di Jefferson, ma in uno staterello sudamericano, dove accadimenti del genere ne hanno costellato la storia. Un presidente che dimentica totalmente di guidare una democrazia, basata sul voto popolare e su consolidati meccanismi democratici di tutela dello stesso, e armato, per così dire, di forcone e randello guida la folla inferocita e senza più controllo, a sovvertire ogni parvenza di quella democrazia che lui, quattro anni prima, aveva giurato sulla Bibbia di difendere. Difendere sì, ma dai nemici esterni, dalle nazioni ostili, certamente non dal suo stesso popolo, che come accadeva da più di due secoli, dai tempi di George Washington, si era recato alle urne, aveva espresso liberamente il suo voto, rispettando così una tradizione vecchia di secoli. E invece no, questo personaggio, che trovo perfino difficile definire, ha nuovamente tentato il colpaccio; alla sua bella età di quasi ottantenne, non pago del disastro nel quale aveva condotto l’America nel quadriennio 2016-2020, si è ricandidato e ha condotto una battaglia elettorale (in questo caso “battaglia” è il termine più appropriato) per riprendersi, com’è purtroppo accaduto, lo scettro del comando.

Ma la domanda che dovremmo rivolgere a noi stessi non è tanto quella che riguarda questo esagitato individuo, malato di protagonismo, assolutamente inadatto a guidare un condominio, tanto meno una grande nazione come gli Stati Uniti, ma è quella che riguarda il popolo degli elettori, dei milioni di americani che si sono recati alle urne per esprimere la loro preferenza. Che popolo è quello che sceglie di avere come presidente un figuro del genere, volgare, sboccato, intemperante, vanaglorioso, aggressivo, violento, che tiene in disprezzo le donne considerandole solo un trastullo per i piaceri maschili? Vien da dire che i simili stanno bene fra loro e che, quindi, metà degli americani è della stessa pasta di Trump. E, in tal caso mi sento di condividere l’opinione di Voltaire, che aveva un sommo disprezzo per la “vile plebaglia”, e distingueva sempre “gli uomini che pensano dal volgo che non è fatto per pensare”. E persino un illustre precursore degli illuministi, Baruch Spinoza, filosofo olandese del diciassettesimo secolo, nutriva una forte diffidenza nei confronti del volgo, cioè della maggioranza degli esseri umani, oggi diremmo del “popolino”. E, secondo lui, il maggiore ostacolo alla realizzazione della repubblica della ragione e della libertà era rappresentato dalla natura dell’uomo e dal volgo, cioè dalla maggioranza del popolo. Come i precedenti la pensava anche Jean-Jacques Rousseau che, mentre amava il popolo come ideale detentore della sovranità, definiva il popolo reale della gente comune “una plebe abbrutita e stupida”.

Dai tempi di quegli illuminati autori non molto è cambiato, tranne che, ovviamente, ciò che ci è stato donato dal progresso materiale, ma non di quello intellettuale, o spirituale, e agli autori appena menzionati possiamo aggiungere anche Machiavelli che, pur nutrendo una forte passione per la libertà, era costretto a constatare che la maggioranza degli esseri umani non sa voler essere libera, non sa preservare la sua libertà e spesso si lascia ingannare da chi le promette sicurezza a prezzo della libertà. Questo popolo, dunque, è quello che ha nuovamente attribuito il potere, per una seconda volta, al demagogo che promette di rivoluzionare la vita dei suoi concittadini — e quella del resto del mondo — sapendo di mentire perché l’America è un paese in declino e la sua elezione probabilmente indebolirà ancora di più la sua democrazia.

Ciò che aspetta l’America ora che il Tycoon è di nuovo al comando non è confortante; perché, scongiurato il pericolo di una sollevazione popolare in caso di sconfitta, con questa sua vittoria avremo una replica in peggio del suo primo mandato, in quanto sarà sempre costretto a tenersi buoni i facinorosi che lo hanno eletto, scendendo al loro livello, vellicandone i bassi istinti, cosa che, d’altronde, gli è congeniale. Al riguardo ritengo che avesse pienamente ragione Gustave Le Bon, singolare ed eclettico studioso dei primi del Novecento, secondo il quale la folla, quella che per le strade di Washington si raduna urlando slogan minacciosi, è un agglomerato di persone che assumono caratteristiche nuove e diverse da quelle che possiedono in quanto singoli individui. Egli scrive: “Nella folla, le attitudini coscienti, razionali e intellettuali dei singoli individui si annullano, e predominano i caratteri inconsci”. Così, quando è assorbito dalla folla, l’individuo “scende di parecchi gradini la scala della civiltà. Isolato, forse era un individuo colto; nella folla è un istintivo, e dunque un barbaro. Ha la spontaneità, la violenza, la ferocia, e anche gli entusiasmi e gli eroismi degli esseri primitivi” e, aggiunge Le Bon: “La folla è un gregge che non può fare a meno di un padrone”; inoltre considerava la maggior parte dei capi politici “retori sottili, che mirano all’interesse personale e cercano il consenso lusingando i bassi istinti … Le doti necessarie a un capo non sono né l’intelligenza né la cultura … La parola è lo strumento fondamentale e indispensabile per conquistare le masse”. Da qualche ora sappiamo già chi è il vincitore di quella che chiamare campagna elettorale è un eufemismo, in quanto è apparso che si sia trattato, piuttosto, di una “chiamata alle armi” di un popolo che vede in Trump il suo dio e che non avrebbe tollerato nessun deicidio. D’altra parte è proprio Dio colui al quale Trump dice di dovere la sua seconda rielezione, avendo infatti dichiarato che “Dio mi ha salvato per il bene del paese”. È evidente che anche il dio di Trump è repubblicano, e che avrà molto da fare per sostenere un uomo che, alla non più verde età di 78 anni e fino agli 82, dovrà tenere le redini di un paese non facile da governare, anche in considerazione del fatto che quasi la metà d’esso non lo avrebbe voluto come presidente. Ci sarebbe moltissimo altro da dire sull’argomento, ma non è questa la sede. Chi volesse approfondirlo potrebbe riferirsi ad un libro estremamente interessante di Emilio Gentile, “Il capo e la folla” (Economica La Terza, 2022) che approfondisce in maniera esemplare quali sono le dinamiche di situazioni del genere. A noi ormai non rimane che prendere atto della scelta degli americani e, fatti i dovuti scongiuri, sperare che per qualche “miracolo” laico, essa non peggiori ulteriormente le sorti di un pianeta che è già malato di suo, e di una democrazia mondiale pericolosamente in declino.

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