Girare un film e riuscire a portalo nelle sale cinematografiche è cosa notoriamente costosa. Se poi l’autore-regista non è un esordiente ma, al contrario, è famoso e ricco per merito o per fortuna, con alle spalle lavori acclamati da pubblico e critica, si determina una situazione paradossale. L’autore diventa povero, non può più permettersi di sperimentare, risparmiando, e tutto ciò che tocca costa di più, diventa un Re Mida al contrario, sperpera, non valorizza. E ci vogliono soldi, tanti soldi e … sponsor. Così l’autore, anche se non ha niente da dire, dice a rischio di dir sciocchezze o di non dir niente. La macchina organizzativa si mette in moto e a fare il film sono i maghi del marketing dei produttori.
Abbiamo visto al cinema Parthenope, l’ultimo lavoro di Paolo Sorrentino. L’emozione maggiore? Essere in una sala con soli otto spettatori. Il resto, una gran noia. Napoli, Parthenope, oggi tira commercialmente. Le autorità locali sono generose nell’elargire permessi per girare in città. Ogni luogo diventa accessibile alle cineprese, anche i luoghi sacri. Lo scenario naturale, le architetture di pregio, l’orrido contesto dei bassi e dei vicoli sono lì pronti, vanitosi e sfrontati, sempre in posa, in attesa di essere immortalati. Più che opera originale, il film ci è apparso come un raffazzonato montaggio di spezzoni di altri film, vecchi e recenti, una raccolta di ritagli di romanzi e fogli di giornali. Cenni, appunti per un’opera non realizzata. Un Sorrentino annoiato e quindi noioso. Senza coraggio soprattutto, dote non propriamente sua in verità. Ancora una volta ci troviamo di fronte alla rappresentazione di quella nobiltà decaduta e decadente che governa da sempre Napoli. La borghesia, il fantasma nel film e nella storia della città. Anche dell’Accademia, dell’Università se ne da un’immagine fin troppo realistica, baroni onnipotenti e assistenti mostrati come servi sciocchi, il tutto però sospeso nello spazio e nel tempo, senza nemmeno un cenno di spiegazione. E ancora i bassi, le lucciole, le puttane, i camorristi, i riti iniziatici. Tutto già visto ma altre volte con ben altra forza e convinzione. Da Malaparte, La pelle, poi film di Liliana Cavani con Marcello Mastroianni, a Özpetek con Napoli Velata, e prima L’Amore molesto di Mario Martone. Chiari anche i riferimenti a “Ferito a morte” il romanzo di Raffaele La Capria. Ma anche a Francesco Rosi, a Totò, ai De Filippo, a Troisi e tanti, tanti altri. Cenni anche al grande cinema hollywoodiano come il chiaro riferimento a “Viale del tramonto”, film del 1950 diretto da Billy Wilder con William Holden, Gloria Swanson ed Erich von Stroheim. Il Comandante Lauro, le scarpe una prima e una dopo il voto, il mito di Sofia Loren.
Il film di Sorrentino è una continua toccata e fuga. Il filo conduttore di questa non storia, l’amore tra fratelli, l’incesto, è stato solo un innesto trasgressivo in una storia banale. Se Sorrentino lo riteneva importante, allora non è chiaro perché lo abbia frettolosamente fatto sparire con il suicidio di uno dei protagonisti. Ha voluto salvarsi, l’autore, con alcune citazioni colte, ma anch’esse sospese nello spazio e nel tempo, di autori, filosofi e antropologi. “Professore cos’è l’antropologia?” Il gran finale “L’antropologia è vedere!”. Totò direbbe “ma mi faccia il piacere”! Spiace dirlo ma con questo film Sorrentino ha raggiunto i più alti gradi di quella già citata nobiltà decaduta napoletana. Una nobiltà che si è travestita con i colori della sinistra politica. Si è infiltrata anche nelle fila dell’ex Partito Comunista che in parte ha governato e diretto. Una nobiltà il cui segno distintivo è sempre stato quello di declamare valori e principi etici conservatori e poi praticare lassismo e perversione. Una sinistra bigotta, cattocomunista e pugnettara che, in particolare a Napoli, ha lasciato marcire nei suoi ghetti il popolino ignorante, e che solo per pochi anni ha permesso la crescita di un piccolo, piccolissimo ceto medio la cui parte più fortunata si è poi barricata in un solo quartiere, il Vomero. Ancora una volta le altre persone perbene, quelle che lavorano, fanno fatica a muoversi lungo le strade della città, della sua periferia e della sua provincia, che curano l’educazione dei propri figli, che si impegnano nella raccolta differenziata dei rifiuti, che non rubano, non deturpano il paesaggio, che pagano acqua luce gas e immondizia, non evadono le tasse, non chiedono e non pagano il pizzo, che non acquistano merce rubata, che fanno silenziosamente la fila ai pronto soccorso, dai medici di base e nei supermercati, persone straordinariamente normali, dove sono? Cittadini invisibili che non meritano citazioni perché guasterebbero il redditizio cliché propagandistico di una Napoli esotica. La bellezza, la bellezza femminile. Sorrentino non è riuscito ad andare oltre i sogni erotici adolescenziali. Un solo momento buono nel film, il discorso/comizio di Greta Cool che aggredisce Napoli e i napoletani. Buono se però immaginiamo Sorrentino guardarsi allo specchio e rivolgere quelle parole a se stesso.
Io non l’ho visto Partenope, ma quello che scrive Giuseppe Capuano mi sembra in linea con quanto ho sentito dire sul film. Appena lo vedrò sarò più puntuale nel giudizio.