Buone notizie?

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Duemila anni fa, quando il mondo già aveva alle spalle millenni di esperienza umana, tutti contrassegnati da guerre, violenza, e mali d’ogni genere, si levò una voce in una remota contrada del Medio Oriente, portatrice di una “buona notizia”. Essa implicava il tanto desiderato e mai conseguito obiettivo della specie umana: quello di vivere su una terra pacificata e libera da ogni male per tutta l’eternità. Era una notizia tanto buona quanto sconvolgente, che meritava d’essere “predicata in tutta la terra abitata, in testimonianza a tutte le nazioni” (Matt. 24:14) prima del suo adempimento. E quando si sarebbe verificato lo sconvolgimento planetario che il suo inverarsi avrebbe comportato? Lo stesso annunciatore d’essa lo indicò con chiarezza, precisando che: “Veramente vi dico che questa generazione non passerà affatto finché tutte queste cose non siano avvenute. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno affatto” (Matt. 24:34, 35). Parole autorevoli, se si considera che esse furono pronunciate dalla massima autorità esistente in quel tempo e anche dopo: lo stesso figlio di Dio!

Sono trascorsi più di venti secoli da quel tempo e nessuna delle generazioni che si sono susseguite, nel loro corso, ne ha mai visto nemmeno il minimo indizio. La “buona notizia” rimase ed è ancora inadempiuta, come tutte le promesse umane di cambiamento. Diversamente da allora, oggi chi desidera aggiornarsi sullo stato degli affari del mondo, oltre alla sua esperienza personale e quotidiana, ha modo di accedere a informazioni che al tempo del “galileo” non erano in alcun modo disponibili. I giornali, la televisione, tutti i vari mezzi d’informazione ci danno conto, un istante dopo l’altro, di ciò che accade sull’intero pianeta, e questo non può che relegare sempre più nel campo della non credibilità quelle parole ormai vecchie e desuete. Chi, come me – e credo che siano in molti – ha la brutta abitudine di sfogliare i quotidiani, può anche affannarsi a cercarvi una buona notizia, di qualunque sorta, ma il risultato è purtroppo sempre negativo. Guerre dappertutto, disastri naturali, clima che muta a danno dell’orbe terracqueo e dei suoi abitanti, epidemie, ingiustizie, malvagità di ogni sorta, sono il pane quotidiano dell’informazione. Se togliamo al male che imperversa i “miglioramenti” apportati dallo sviluppo tecnologico, ci rendiamo facilmente conto che, dal tempo in cui fu annunciata e proclamata urbi et orbi quella “buona notizia”, non è cambiato assolutamente niente, anzi, le cose sono notevolmente peggiorate perché fino a qualche secolo fa l’uomo poteva danneggiare se stesso e non altro, oggi, invece, può mettere a rischio l’intero equilibrio planetario, cosa che sta facendo quotidianamente con un impegno degno di miglior causa.

Questo stato delle cose non è nuovo, e ad esso hanno dedicato il loro tempo e il loro impegno innumerevoli menti, le menti migliori del genere umano, nel tentativo di comprendere come è possibile che le cose desiderate da tutti – la pace, la vita, l’armonia – siano quelle che da sempre ci sfuggono. Fra gli intelletti di prestigio non possiamo non menzionare Thomas Hobbes, i cui argomenti, sebbene redatti nella seconda metà del diciassettesimo secolo, sono oggi più attuali che mai; e questo per un motivo molto semplice, per il fatto che l’uomo, al di là delle leggende sulla sua creazione, diffuse in ogni parte del mondo, non è che il frutto – ancora in stato evolutivo – di un lunghissimo processo che lo ha visto erigersi sulle due gambe, ma mantenendo intatte le caratteristiche intrinseche delle specie dalle quali proveniva: la ferocia e la sete di dominio, solo che adesso le esercita in giacca e cravatta e non più con la clava e la pelliccia. Una delle opere più di prestigio di Hobbes è senza dubbio Leviatano. In essa egli giunge a chiarire il problema fondamentale della scienza politica, il problema del potere, al quale egli dedica un intero capitolo, del quale sono decisive queste due righe: “Cosicché pongo in primo luogo, come un’inclinazione generale di tutta l’umanità, un desiderio perpetuo e senza tregua di un potere dopo l’altro, che cessa solo nella morte” (Leviatano, BUR, 2014).

In un pertinente commento alle riflessioni di Hobbes, troviamo ciò che ha scritto al riguardo Norberto Bobbio: “Si potrebbe sostenere che una volta individuato questo desiderio inesausto di potere, che cessa solo con la morte, non vi sia bisogno d’altro argomento per dimostrare la miserabile vita dell’uomo nello stato di natura … Il quadro della terribilità dello stato di natura diventa veramente completo. Questa terribilità consiste in ciò: il desiderio di potere in una situazione in cui tutti sono uguali nel potere di nuocersi, e ognuno ha il diritto naturale su tutto, è uno stato permanente di guerra. Lo stato di natura è lo stato di guerra di tutti contro tutti”. Più avanti Bobbio continua: “Si potrebbe obiettare che non è realistica la concezione dello stato di natura come stato di guerra «permanente». Ma per guerra Hobbes intende correttamente non soltanto lo stato di conflitto violento, ma anche quello in cui la quiete è precaria ed è assicurata esclusivamente dal timore reciproco, come si direbbe oggi dalla «dissuasione», insomma quello stato in cui la pace è resa possibile unicamente dalla minaccia permanente della guerra … la natura della guerra non consiste in questo o quel combattimento effettivo, ma nella disposizione manifestamente ostile, durante la quale non vi è sicurezza del contrario”. (N. Bobbio, Thomas Hobbes, piccola biblioteca Einaudi, 2004).

Che queste riflessioni, accompagnate da molte altre estremamente interessanti, siano attualissime anche oggi, non v’è nessuno che possa negarlo. Dopo un settantennio di “pace” controllata solo dall’equilibrio di forze di uguale entità, nel cuore della vecchia Europa si è rotto l’equilibrio ed essa è nuovamente insanguinata da un conflitto che minaccia di dilagare in uno ancor più grande, e questa volta con armi nucleari tattiche. L’attuale competizione elettorale negli Stati Uniti, al termine della quale vi è la possibilità che venga eletto un individuo come Donald Trump, rappresenta un incubo per tutte le persone amanti della pace, che sembra un obiettivo che si allontana ogni giorno di più. Lo stesso avviene in un’altra area cruciale del pianeta, il Medio Oriente, nel quale guerre, atrocità, sterminio, sono all’ordine del giorno, e non vi è un barlume di speranza che cessino. La lezione dei campi di sterminio di Hitler non ha insegnato niente, perché in diversa misura li ritroviamo dappertutto, a cominciare dalle truppe di Hamas. A guardar bene la mappa dal globo, da un polo all’altro, non troviamo niente che ci faccia ben sperare, che costituisca una “buona notizia”. In Estremo Oriente, al potere vi è un personaggio come Kim Jong-Un, che considera la vita umana, la vita dei suoi stessi connazionali come di nessuna importanza, e tanto ardeva dal desiderio di combattere che si è associato a Putin nella guerra contro l’Ucraina, mandando truppe e armamenti, mentre niente lo costringeva a farlo, se non la sete di maggior potere e prestigio.

Potremmo continuare, ma l’elenco dei conflitti, delle guerre, delle scaramucce, degli eccidi e delle atrocità e dei disastri naturali è così ampio che alla fine stancherebbe e ci rattristerebbe inutilmente. Sappiamo ciò di cui stiamo parlando.

Sull’argomento della guerra e della pace, si è cimentato anche Immanuel Kant, nel suo La pace perpetua (Universale Economica Feltrinelli, 2019) che vide la luce più di un secolo dopo Hobbes ma nel quale egli presenta una prospettiva profondamente diversa, nella quale la pace è possibile, e anche che: “è un dovere intellettuale proclamare l’impossibilità della guerra. Anche se non vi fosse alternativa”. Non è inevitabile che aderiamo alle pretese normative della sua dottrina etica. Tuttavia è possibile condividere il nucleo del progetto di Kant, anche se non siamo disposti ad accettare tutto quello che Kant presumibilmente riteneva indispensabile accettare. Chi, invece, non condivide le ipotesi di Kant è convinto che la sfida della “eliminazione della guerra” è una di quelle che non hanno mai avuto né mai avranno soluzione, e questa è anche la irrilevante opinione del sottoscritto.

Come fare, allora, per le persone di fede, a conciliare una promessa fatta dalla più alta autorità morale esistente, addirittura il Figlio di Dio, con il suo evidente ed eclatante fallimento? Perché nessuna persona di buon senso, dopo aver letto che non sarebbe passata una generazione perché tutto si avverasse, e dopo duemila e più anni di attese non realizzate, potrebbe continuare a ritenere ancora valide e veritiere quelle parole? Ma a tutto c’è una soluzione, quando non si è disposti a chiamare la realtà con il suo nome e ad accettarne le conseguenze, quali che esse siamo. Alcuni “esegeti” hanno spiegato che la “generazione” di cui parlava Gesù non era quella in cui vivevano lui e i suoi discepoli, ma una generazione del futuro, sulla modalità del cui arrivo egli si sarebbe fatto sentire al tempo opportuno e dalle persone opportune! Così, in un mondo avviato ad un futuro piuttosto incerto, e con l’efficace concorso delle forze della natura che non ci risparmiano prove della sua potenza, seminando morte e distruzione un giorno sì e l’altro pure, non abbiamo altra soluzione che l’affidarci a inaffidabili interpretazioni di parole che, anche se dette da un “galileo” importante, sono di nessun valore, o accettare ciò che quotidianamente ci viene presentato, leggendolo alla luce di una cosa che non dovrebbe tramontare mai: la SPERANZA!

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