Emergenza democratica

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La bagarre politico-giudiziaria che in questi giorni sta profondamente inquietando l’Italia — ma sembra non troppo gli italiani — sta prendendo una brutta piega, della quale sembra non siano in molti a rendersene conto, se è vera una recentissima ricerca curata da Ilvo Diamanti, che evidenzia, come, sul tema del conflitto magistratura-politica, una buona parte della popolazione e più del 70% del mondo giovanile si dichiarano disinteressati o comunque non a conoscenza dei termini di fondo dello scontro in atto nel Paese. La contrapposizione frontale, che vede antagonisti due pilastri dell’ordinamento costituzionale, il potere esecutivo e quello giurisdizionale, rappresenta un vulnus esiziale per la tenuta dell’ordinamento democratico, e tutto questo in un periodo nel quale l’intera Europa è squassata da conflitti di varia natura che rimandano a tempi bui che credevamo — evidentemente sbagliandoci — di avere per sempre relegati nel dimenticatoio della Storia. Tempi bui, però, illuminati dallo scoppio delle bombe in Ucraina, in Palestina, in Libano, in Israele e dalla minaccia che grava pesantissima su tutti gli stati dell’ex impero zarista-sovietico le cui mire e ambizioni potrebbero ricacciarci molto indietro nel passato.

Gli scontri fra il potere politico e la magistratura non sono una novità. Conobbero il periodo d’oro ai tempi dell’«unto del Signore» che difendeva con le unghie e con i denti il potere conquistato con mezzi e con personaggi a lui molto vicini che ne fecero uno dei grandi indagati del tempo, oltre alle sue disavventure erotico-giudiziarie. Ma anche allora non si giunse mai al calor bianco come adesso, e la risposta non è molto difficile da trovare. La battaglia del “Cavaliere” era una battaglia personale e, come ha scritto in una sua mail il magistrato di Cassazione Marco Paternello, l’attuale presidente del Consiglio «non ha inchieste giudiziarie a suo carico e quindi non si muove per interessi personali ma per visioni politiche e questo la rende molto più forte». Ma tutto ciò «rende anche molto più pericolosa la sua azione, avendo come obiettivo la riscrittura dell’intera giurisdizione e non semplicemente un salvacondotto, come invece avveniva per Silvio Berlusconi.

Ecco, questa è la risposta. Anche se gli scontri del passato erano violenti, non c’era di mezzo il traguardo più ambito di questo governo di destra-destra, e cioè la modifica dell’ordinamento costituzionale; basta rifletterci un po’ su per rendersi conto che è da due anni, e cioè dalla presa di potere dei post fascisti, che lo scontro fra i due poteri si è sempre più esacerbato, per la continua ingerenza della politica al comando nei delicati ambiti della giurisdizione. Il tentativo, del tutto evidente, è quello di sottomettere tutti gli altri poteri dello Stato al solo esecutivo, delegittimando Magistratura, Parlamento e Presidenza della Repubblica. Come non ricordare a questo punto le ormai famose parole pronunciate il 3 gennaio 1925, nel celebre discorso del bivacco, quando Mussolini dichiarò: «Potevo fare di questa aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto». «Almeno in questo primo tempo …», ma poi venne il tempo, e ciò che accadde lo sappiamo tutti.

Fanno riflettere anche le parole dell’ex missino e nostalgico del Duce, l’attuale presidente del Senato, Ignazio la Russa, secondo il quale: «La destra che vuole governare, vorrebbe rispetto per le prerogative della politica», e poi parla di una zona grigia che non permette di capire «quale sia il confine tra le funzioni della giustizia e quelle della politica … Se la Costituzione non appare sufficientemente chiara, si può chiarire meglio».

La Costituzione è chiara, ma è anche — perlomeno per chi governa — piuttosto stretta, e si vorrebbero allargarne i confini a tutto vantaggio del potere della destra al comando. È chiaro, quindi, che l’accesa disputa riguardante il trasferimento dei migranti in Albania e il rientro di alcuni di loro nei paesi d’origine, non ritenuti “sicuri”, non è altro che una patetica scusa per sferrare un colpo mortale a un sistema che già di per sé non si regge bene sulle gambe. Come pure leggere le parole del guardasigilli Nordio secondo il quale i giudici romani non avrebbero capito le direttive di Bruxelles perché scritte in francese e difficili da capire, e secondo il ministro (che, non dimentichiamolo è un ex magistrato): «La difficoltà derivante dalla lingua in cui è scritta la sentenza – il francese – potrebbe aver ostacolato una corretta comprensione del documento da parte del corpo giudiziario italiano». Da un uomo con i suoi trascorsi ci si sarebbe aspettata una critica più pertinente, più “tecnica”, invece dell’ipotesi, offensiva e ridicola, secondo la quale i giudici romani con capiscono ciò che si dice in sede europea perché si dice in francese, ostico ai magistrati romani, mentre lui è un virtuoso della lingua di Voltaire. Salvini, per esempio, con Putin parla in russo, e se non capisce il russo (come molte altre cose) si fida dell’interprete oppure no?

Ma la posta in gioco è ancora più alta di quanto si possa immaginare, più alta ancora della difesa della vigente Carta Costituzionale. Il conflitto ora è fra un governo dai molti poteri e l’ordine giudiziario, quindi intacca qualcosa di più profondo della democrazia: lo Stato di Diritto. L’idea governativa che si debba limitare politicamente l’indipendenza della magistratura lede uno degli acquisti decisivi della modernità: la garanzia di imparzialità nell’applicazione della legge, della sua oggettività, prevedibilità, universalità. Se non c’è «un giudice a Berlino», allora si aprono le porte dell’arbitrio da parte del partito vittorioso, come un tempo lo era quello del sovrano assoluto. E, per dirla con il professor Silvio Gambino, della Facoltà di Scienze Politiche della Calabria: «L’intento del Governo, in più punti ed occasioni, può apparire orientato alla ‘riscrittura’ (‘scardinamento’?) della complessa e complessiva architettura costituzionale vigente, per la quale la divisione dei poteri non è una “spartizione corporativa” con i giudici costituiti in casta ma è finalizzata a strutturare armonicamente un necessario intreccio fra Stato democratico e Stato costituzionale delle garanzie, in una parola fra principio di legittimità e principio di legalità».

Ciò che sta accadendo oggi ha una storia. Come spiega Carlo Galli, ex deputato e professore di storia delle scienze politiche, nel suo La destra al potere (Raffaello Cortina Editore, 2024): «Perché la destra entrasse formalmente nella legittimità repubblicana si è dovuto dissolvere l’ordine politico del dopoguerra ed è dovuta cadere la doppia conventio ad excludendum che aveva dato forma alla prima democrazia italiana: l’esclusione originaria del fascismo e quella — successiva, politica — delle forze che si definivano comuniste. Il crollo del comunismo, la sparizione dei partiti della Prima repubblica, travolti dall’inchiesta giudiziaria Mani pulite, hanno mobilitato le posizioni in campo; l’erede dei voti della DC, cioè Silvio Berlusconi, ha dovuto sdoganare la destra per opporsi alla «gioiosa macchina da guerra», la coalizione di centro-sinistra, in cui l’erede del PCI, il PDS (Partito democratico della sinistra), aveva un ruolo centrale. Per presentarsi alle elezioni non solo a scopo testimoniale ma per vincerle — il sistema elettorale e politico era divenuto dal 1993 maggioritario e bipolare — la destra dovette abbandonare, almeno pubblicamente, ogni riferimento teorico e pratico al fascismo; dovette passare cioè dal neofascismo e dal post-fascismo alla rottura con il fascismo e, con Gianfranco Fini, a qualche riconoscimento del ruolo storico e politico dell’antifascismo. Dovette insomma non solo accettare fattualmente la sconfitta storica dell’esperienza fascista, che si collocava alle radici della destra, ma tagliare quelle radici: la frase sul fascismo come «l’epoca del male assoluto», pronunciata da Fini in Israele nel novembre del 2003, in relazione soprattutto alle leggi razziali del 1938, è l’esito di un processo che non poteva limitarsi a denunciare razzismo e guerra come errori del fascismo, ma che doveva investire l’intera esperienza del ventennio … Così la destra post-missina prese parte alla vita politica della Seconda repubblica come socio minore, in alleanza con la destra liberal populista di Berlusconi». Ecco, quindi, lo stato reale delle cose: dietro la infinita diatriba fra governo e magistrati vi è da parte dell’attuale compagine governativa la ricerca del revanscismo, la “soddisfazione” di avercela finalmente fatta ad uscire dal cono d’ombra che l’aveva accompagnata sin dalla fine della seconda guerra mondiale e dalla disfatta del fascismo. Questa è per Meloni un’occasione d’oro, un pasticciaccio brutto, pieno di ingredienti pesanti e indigesti, ma molto gustoso per quella parte maggioritaria del Paese che la vota: ci sono i migranti da respingere, il governo operoso intralciato dalle toghe di sinistra, sullo sfondo c’è l’Europa matrigna e ci sono i traditori che sostengono la superiorità del diritto europeo su quello nazionale. Per cui, conclude Galli: «ce n’è abbastanza per scatenare la rabbia di mezza Italia. E questo è il risultato più probabile, e più drammatico, dell’intera vicenda: che siamo davanti a un nuovo passo nella decostruzione della Costituzione, verso la sostituzione dell’ordinato vivere civile con una furiosa contrapposizione che coinvolge pezzi delle istituzioni e spacca verticalmente il Paese. Un disegno di democrazia selvaggia, caotica e autoritaria al contempo. Che sia Trump, con la sua insofferenza per le regole, il modello fantasma della destra italiana?»

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