Elezioni e democrazia

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Il momento delle elezioni è quello di massima importanza nelle democrazie, poiché in esso si invera in tutta la sua pregnanza il significato profondo del processo democratico, del quale le elezioni rappresentano la dimostrazione concreta e la sua realizzazione. Esso è il momento nel quale il “popolo sovrano” è chiamato ad esercitare, consapevolmente, la propria “sovranità”, in adempimento del dettato costituzionale secondo il quale, all’articolo 1, essa gli appartiene e “la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione” medesima.

Vi sono, però, poche luci e molte ombre che con il trascorrere del tempo si sono addensate su questa rappresentazione del “governo del governo dal popolo, e per il popolo”, secondo la celebre definizione di Abraham Lincoln. Ed è sulle ombre che si fanno sempre più fitte, non solo in Italia, che si sono espressi con due saggi da studiare con la massima attenzione, due degli esponenti di rilievo della cultura politica italiana contemporanea: Luciano Canfora ed Emilio Gentile, rispettivamente in “Sovranità limitata”, e “In democrazia il popolo è sempre sovrano: Falso!

Si chiede Gentile: «Nelle democrazie del nostro tempo le cose stanno proprio così? Sembra ormai che il popolo faccia da comparsa in una democrazia recitativa: entra in scena solo al momento del voto. Poi, nella realtà, prevalgono le oligarchie di governo e di partito, la corruzione nella classe politica, la demagogia dei capi, l’apatia dei cittadini, la manipolazione dell’opinione pubblica, la degradazione della cultura politica ad annunci pubblicitari. E se nelle democrazie attuali questi fossero tratti non contingenti ma congeniti?». Lo abbiamo detto più volte e non mancheremo di ripeterlo: poiché all’atto pratico il popolo è “sovrano” solo una volta ogni cinque anni, o comunque solo nel tempo delle elezioni, è proprio allora che esso deve dimostrarsi all’altezza del compito che gli è assegnato, perché la salute della democrazia dipende dalla qualità delle persone che scelgono i governanti e, soprattutto, dalle persone che poi governeranno. Ed è qui che si nasconde il tarlo, cioè nella qualità degli elettori. Paradossalmente, come nell’antica Grecia dei filosofi, io sarei incline ad una forma moderna di epistocrazia, concedendo il diritto di voto a persone che – a prescindere dagli orientamenti politici – siano di grande integrità morale, di vasta cultura e di competenze specifiche nel campo della politica e dei sistemi elettorali. Ma questo è soltanto un pio desiderio. La realtà è invece quella che vediamo scorrere quotidianamente sotto i nostri occhi: la gente va a votare per colui o colei che gli promette le cose che più gli stanno a cuore, infischiandosene se stanno a cuore anche agli altri o se sono per il bene collettivo.

La prova provata la ritroviamo nella campagna elettorale più pubblicizzata del mondo: quella per l’elezione del prossimo presidente degli Stati Uniti. Ad eleggerlo saranno cittadini con una moltitudine di orientamenti che definire “politici” è un eufemismo. Quei cittadini andranno alle urne con un solo desiderio: quello di vedere rivendicate le loro frustrazioni e quello di potere vendicarsi di quegli altri che loro ritengono i responsabili di tali frustrazioni. Se si vuole dare uno sguardo approfondito a questa categoria di votanti, è utile la lettura di Elegia americana, un libro – diventato best seller negli Stati Uniti – prodotto da J.D. Vance, giovane senatore repubblicano e candidato alla vicepresidenza con Trump. In esso viene narrata senza indulgenza la storia, in filigrana, di un Paese intero, di quel proletariato bianco americano che ha espresso la sua frustrazione portando Donald Trump alla presidenza la prima volta già nel 2016. Elegia Americana celebra un’America silenziosa e dà voce a quella classe operaia dei bianchi degli Stati Uniti più profondi che un tempo riempiva le chiese, coltivava le terre e faceva funzionare le industrie. Un mondo ormai scomparso, e al suo posto c’è solo ruggine e rabbia. Un popolo che ha paura, sì paura, che gli elettori afroamericani, latino americani e di altre minoranze etniche conquistino il potere con l’elezione di una donna nera, Kamala Harris, e di essere retrocessi ancora più in basso nella scala sociale. E Trump, che conosce quegli stati d’animo, promette loro ciò che si aspettano, ovvero economia e immigrazione, i temi in cima alle loro preoccupazioni. Sull’immigrazione Trump sta calcando la mano: mentre prima prometteva di costruire un muro fra il Messico e gli Stati Uniti per fermare l’immigrazione illegale, adesso è passato alla seconda fase, quella della deportazione di massa (seguito a stretto giro di ruota dalla nostra ineffabile “Giorgia della Garbatella”). Ha scelto una strategia aggressiva, che funziona anche se dice bugie perché gli elettori gli credono, o meglio, hanno deciso di credergli. Gli elettori bianchi lo vedono come l’ultimo argine per non cedere il Paese agli immigrati e, secondo il neocon Robert Kagan, sono pronti all’insurrezione se perdesse. E così l’aspirante presidente per la seconda volta promette a gran voce il pugno di ferro contro gli abortisti, i transgender, i woke, vicini al movimento per la difesa dei diritti della gente di colore, (Black Lives Matter), mentre ai suoi ricchi finanziatori dell’industria dell’energia fossile promette di cancellare tutte le regole e le limitazioni della transizione verde, tenendo in assoluto non cale ciò che è veramente il bene per tutti i cittadini, cioè un ambiente pulito e una natura protetta.

Per contrasto chi vota Harris è a favore dell’aborto e crede alle sue promesse di una maggiore attenzione all’ecologia, alla diminuzione delle tasse, al facilitato accesso alla sanità per i più indigenti, all’abolizione delle esose tasse universitarie, ad una maggiore attenzione ai diritti degli animali e così via. Due visioni del tutto opposte e due elettorati in pieno conflitto fra di loro.

Ora, aspettarsi che da simili competizioni e con siffatti elettorati possa uscirne qualcosa di buono, è pura illusione, e ne è conferma ciò che l’economista austriaco del XX secolo Joseph Shumpeter disse, avvertendo che la prima condizione fondamentale per il funzionamento di una democrazia rappresentativa non difettiva “è che il materiale umano – il personale delle macchine politiche che, eletto al parlamento, di qui sale a funzioni di governo – sia di qualità sufficientemente elevata … dotato di capacità intellettuali e morali adeguate”.

La triste, ma vera realtà è che il “popolo sovrano” non esiste come popolo reale. Esistono i governanti, i politici che parlano e operano in nome del popolo sovrano, ma il popolo sovrano non esiste. Mentre, anticamente, esisteva la sovranità corporizzata nell’aristocrazia governante, la sovranità popolare invece non può essere incarnata in un corpo fisico. “Se il popolo delega la sua sovranità, il popolo abdica”, ribadiva nel 1850 il democratico Victor Prosper Considerant, perché il popolo “che non si governa più da sé, viene governato”. Provocatoriamente Pierre-Joseph Proudhon, socialista anarchico, chiedeva: “Che mi si dica dov’è il Popolo … Dove e quando avete sentito il Popolo? Attraverso quale bocca, in quale lingua si esprime?”

Ecco perché il momento elettorale è, nelle democrazie liberali, un momento che potremmo definire “sacro”, in quanto è l’unico nel quale il “popolo” prende forma e concretamente si esprime. Ma le pessime esperienze dei tempi più recenti ci stanno facendo assistere a una sua quasi scomparsa, alla sua desovranizzazione, perché esso si sente sempre meno partecipe dell’esercizio della sua sovranità, sentendosene espropriato proprio dagli stessi governanti che tuttora continua a eleggere. È, questo, un altro “ossimoro della democrazia”: è la democrazia recitativa dove governano i rappresentanti di un “demos assente”.

Chiudiamo con un richiamo all’inciso di poco prima, quando abbiamo parlato della deportazione di massa del programma trumpiano. Da cittadino comune, da persona “non informata dei fatti”, mi continuo a chiedere: perché dopo averli “salvati”, i migranti presi in carico dalle navi delle organizzazioni umanitarie vengono deportati, sì, “deportati” in Albania in campi che hanno tutto l’aspetto di centri di detenzione? In Italia, che è molto più grande dell’Albania, non esisteva proprio un luogo idoneo dove realizzare il Centro, senza bisogno di inondare di soldi l’Albania? Più che esseri umani, questi “migranti” sembrano pacchi di merce che vengono imbarcati, sbarcati, deportati, inviati o rinviati ai loro paesi d’origine, sbattuti a destra e a manca senza tenere nel minimo conto la loro dignità e i loro diritti “inalienabili” di esseri umani. È su questo delicato e doloroso argomento che, ancora una volta, Luigi Manconi – che anche se è ormai cieco, ci vede bene – fa sentire la sua voce e, in un articolo su Repubblica intitolato La campagna d’Albania, ci narra nei particolari il calvario di questa povera gente e il trasformismo del nostro Governo che cerca di risolvere il problema spostandolo fuori dai sacri confini; e questa è la realtà. Ma, ritornando al popolo “sovrano”, la realtà è che è un popolo “afono”. Per far sentire la nostra voce contro la guerra, contro il trattamento dei migranti, contro lo sfascio del sistema sanitario, contro il degrado dei centri delle grandi città, contro la carenza di una rete di trasporti efficiente, contro le mille cose che non funzionano, che facciamo: ci affacciamo al balcone e gridiamo? Oppure ci uniamo a qualche corteo di dimostranti che protestano, con il serio rischio di ricevere manganellate dalla polizia? Oppure aspettiamo la prossima tornata elettorale e partecipiamo per l’ennesima volta alla farsa di elezioni che mortificano la democrazia?

1 commento su “Elezioni e democrazia”

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