Cultura e libertà

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Perché questo binomio? Cos’è, se vi è, che accomuna inscindibilmente, i due termini e ciò che essi rappresentano? Cominciamo con il tentare di tratteggiare quel che intendiamo per cultura, ovvero: “L’insieme delle cognizioni intellettuali che una persona ha acquisito attraverso lo studio e l’esperienza, rielaborandole peraltro con un personale e profondo ripensamento così da convertire le nozioni da semplice erudizione in elemento costitutivo della sua personalità morale, della sua spiritualità e del suo gusto estetico, e, in breve, nella consapevolezza di sé e del proprio mondo”. Naturalmente, vi è una profonda differenza fra cultura ed erudizione, cioè accumulo di nozioni. Aggiunge Pavel Florenskij che “la cultura non va confusa con quell’erudizione che ha il proprio fine in se stessa, nell’accumulazione dei dati, nella loro ostentazione sociale o accademica, ed è espressione di collezionismo delle informazioni, guscio di un sapere ridotto alla sua apparenza, gioco di riconoscimento tra i sodali di una conventicola”. E perciò, il segno maggiormente tangibile di differenza tra semplice erudizione e cultura è che nel primo caso ci troviamo di fronte a conoscenze che possono anche essere apprese ma non assurgono al grado di cultura perché non sono interiorizzate, non sono vissute, quindi rimangono conoscenze inerti e passive. Possiamo certamente avere nozione del concetto di eticità, ma se non l’applichiamo essa non diverrà mai cultura. Si tratta anche di cognizioni intellettuali acquisite attraverso l’esperienza, l’influenza dell’ambiente e rielaborate in modo soggettivo e autonomo che diventano elemento costitutivo della personalità, contribuendo ad arricchire lo spirito, a sviluppare o migliorare le facoltà individuali, specialmente la capacità di giudizio o, come asserisce Luigi Luca Cavalli Sforza nel suo L’evoluzione della cultura: “La cultura è qui intesa come accumulo globale di conoscenze e innovazioni, derivante dalla somma di contributi individuali trasmessi attraverso le generazioni e diffusi al nostro gruppo sociale, che influenza e cambia continuamente la nostra vita. La cultura o è parte costitutiva della persona o non è. O ci appartiene e la viviamo oppure rimane semplice nozione”. Ed è in questo che, in sintesi, sta la differenza

Sappiamo bene che con il termine “cultura” possiamo indicare una molteplicità di significati: cultura umanistica, scientifica, religiosa e altro. Ogni popolo, in base ai suoi trascorsi, alle sue credenze, all’ambiente in cui ha vissuto e si è sviluppato, ha elaborato una sua cultura, che spesso è un discrimine talmente profondo che nessun tipo di “ponte” può consentirci di attraversare. Aggiungiamo anche che la storia degli ultimi 5000 anni mostra che è stata la religione uno dei fattori più determinanti nel modellare la cultura di un popolo. Non per nulla il termine cultura deriva da “culto”, dal nominativo neutro plurale di colturus, participio futuro di còlere, nasce la parola cultura. E se dal participio futuro di còlere (colturus) nasce “cultura”, da quello passato (coltus) nasce “culto”. In accordo con le teorie del sacro, parola ultima della scienza, la cultura ha origine dal culto, è derivata dagli atti di culto. Tutti i concetti filosofici e scientifici derivano dal culto. Così anche i miti. Realtà originaria, nella religione, non sono i dogmi e nemmeno i miti, ma è il culto, ovvero una realtà concreta. Questa è l’opinione espressa dal grande teologo e filosofo russo Pavel Florenskij nei primi anni del XX secolo in La concezione cristiana del mondo (1921). Religione che, fortunatamente, negli ultimi secoli, ha perso molta della sua presa e influenza. Al riguardo è illuminante la lettura di Chiese Chiuse, di Tomaso Montanari (Einaudi, 2021) nel quale con esempi molto appropriati, egli tratteggia la storia del declino della religione nel mondo occidentale negli ultimi 700 anni.

Cosa c’entra tutto questo con la libertà? Un fatto che nessuno penserebbe di mettere in discussione è che la cultura o è libera di svilupparsi, di evolvere, di modificare l’idea del mondo dei contemporanei, o in caso contrario è bieca soggezione al regime vigente, sia esso religioso, statale o di altra natura. Si prenda il caso della cultura scientifica, e andiamo al tempo di Galileo Galilei nel ‘600, con la sua fondazione della Fisica Sperimentale. Sappiamo tutti i guai che lo scienziato ebbe con l’Inquisizione che “non gradiva” un metodo per arrivare a verità scientifiche diverso da quello che consisteva nella ricerca della verità già scritta negli antichi testi filosofici o religiosi. Fortunatamente il mondo aveva fatto sufficienti passi avanti e l’idea di Galileo riuscì a sopravvivere alla condanna papale: il mondo della scienza, della cultura scientifica, smise così di dar retta ad Aristotele e abbandonò l’interpretazione letterale della Bibbia, dando inizio alla scienza e alla cultura moderne.

Per quanto possa sembrare strano e anacronistico, un clima simile a quello che incombeva sul mondo al tempo di Galileo esiste anche oggi, sia nel mondo occidentale che nella sua controparte, a Oriente. Mondo in cui un “libero pensatore” non può permettersi di elaborare una propria visione della vita, di dio, della scienza, della cultura in generale, se esse non sono allineate con la cultura mainstream del resto della popolazione e delle sue autorità. Ci riferiamo principalmente alla cosiddetta “cultura islamica”, nella quale il trascorrere dei secoli dai tempi di Maometto ha esercitato ben poca influenza nella sua evoluzione. Mentre nel mondo occidentale la Bibbia, il libro sacro dei cristiani, non è più la base infallibile per determinare la condotta di vita di un popolo – anche se con le dovute eccezioni di cui parleremo più avanti – nel mondo islamico il Corano riveste ancora l’importanza che rivestiva la Bibbia fino a quattro o cinque secoli fa nel mondo occidentale, costringendo così chi vive nei paesi dell’Islam a vivere secondo regole e consuetudini vecchie di più di quattro secoli. Dal che ne deriva un suo aspetto fondamentale: l’inestricabile connessione tra la religione e ogni ambito della vita pubblica e privata del credente, che spazia dall’abbigliamento all’alimentazione, dagli obblighi quotidiani della devozione alle regole e consuetudini della vita sociale, violando i quali si corrono seri rischi, se non sempre penali, ma certamente di ostracismo da parte della comunità, di cui prime vittime sono la cultura e la libertà.

Nemmeno l’occidente è immune da questa piaga che è rappresentata dalla “cultura” che trae i suoi fondamenti esclusivamente dalle antiche Scritture. Credo di non dire niente di nuovo quando uno sguardo approfondito a quella “cultura” rivela che diverse sette cristiane rimangono fedeli alla lettera della Bibbia e dunque non credono nell’evoluzione; fra queste la religione battista, assai diffusa specie nel sud degli Stati Uniti dove al presidente del più potente e tecnicamente avanzato paese del mondo di solito non si permette di esprimere un’opinione sull’evoluzione, per paura di perdere voti o fors’anche a causa di una insufficiente preparazione scientifica, che è un difetto diffusissimo nell’attuale personale politico di molti Stati, in primis il nostro e, mi si permetta un inciso, tutto questo recente parlare in latino di Ius Soli, Ius Sanguinis, Ius Scholae, Ius Culturae, mette veramente a dura prova le reminiscenze scolastiche dei nostri ministri, che non sono certo dei brillanti pensatori, dei quali alcuni pensano che Dante fosse il fondatore del pensiero di destra e che Colombo fosse un seguace delle idee di Galileo Galilei! Sentir parlare questa gente di cultura è come sentire bestemmiare in chiesa! I Battisti, dicevamo, ma anche i Mormoni, i Testimoni di Geova e molte altre minuscole sette, nelle quali vige l’obbligo al più assoluto conformismo e al suo categorico rispetto, pena non la morte per lapidazione come la Bibbia comandava nei testi dell’Antico Testamento, ma l’assoluto ostracismo, la condanna alla “morte civile” del dissenziente che, magari con i suoi studi, è giunto a credere nell’evoluzione biologica, mentre i testi sacri della sua congrega non la sostengono. Questo accade, anche se in misura enormemente più ampia, nell’Islamismo. Ecco quindi come si intrecciano insieme cultura e libertà: senza la seconda non può esistere la prima. Lo scienziato, lo studioso, il letterato, l’umanista devono poter essere completamente liberi di continuare i loro studi senza che nessuna barriera “culturale” vi si frapponga. La scienza, come la cultura, dev’essere libera di esplorare, di spaziare, di osare, di addentrarsi in mondi nuovi e sconosciuti, altrimenti non avremmo né scienza né cultura.

La cultura è tipica della specie umana e, come per quanto riguarda la sua evoluzione biologica – fatto incontestabile –, essa porta con sé anche l’evoluzione culturale. Dice Cavalli Sforza nel suo libro: “In genere l’evoluzione culturale è indipendente da quella biologica, quindi potremmo evitare di parlare di quest’ultima. Invece è necessario farlo per due motivi. Il primo è che non possiamo escludere del tutto l’esistenza di differenze genetiche capaci di influire in maniera importante sulla cultura … In realtà l’uomo è un animale culturale, benché la cultura si trovi anche fra gli animali. Il secondo motivo è più importante: la genetica ha sviluppato la teoria dell’evoluzione biologica, ma tale teoria è del tutto generale e include anche quella dell’evoluzione culturale, perché essa vale per qualsiasi organismo capace di autoriproduzione”. Oggi viviamo in un mondo nel quale la cultura è stata retrocessa molto più in basso rispetto al posto che dovrebbe occupare. Un mondo in cui invece di permettere all’animo umano di librarsi sempre più in alto, assaporando il potere liberatorio del sapere e di farlo proprio, liberamente, esprimendo in pieno le sue potenzialità, si è del tutto persa la cognizione di quali sono i pilastri di ciò che costituisce l’impalcatura della società attuale. Abbiamo relegato la ricerca del fine ultimo delle cose, dei moti e delle ragioni per cui vivere trasmessici da uomini – quelli sì – di grande cultura, per ascoltare le sirene di un “culturame” becero che privilegia le emozioni fisiche invece di quelle del pensiero, costretto a schierarsi da una parte o dall’altra e costretto a muoversi in spazi angusti nei quali alla vera libertà sono tarpate le ali. Per una volta vogliamo affidarci alla mitologia e ricordare ciò che simboleggia il mito di Icaro, cioè che è nell’indole umana il non sapersi mai accontentare e che sia opportuno guardarsi con prudenza dalla nostra presunzione di volere sempre di più giorno dopo giorno nella nostra tensione e usare le ali che ci sono state date non per bruciarle avvicinandoci troppo al sole, ma per fuggire dal labirinto del “Minotauro” del conformismo che soffoca ogni anelito di vera libertà.

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