Guerra e pace

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Cos’è che, da tempo immemorabile, spinge gli uomini a farsi la guerra, quando nell’ordine “naturale” delle cose è la condizione della pace quella più desiderabile? Cosa c’è nella natura umana che la costringe a scegliere il male quando è il bene quello a cui tutti aspirano, o dovrebbero aspirare? Scartando a priori l’idea sostenuta e caldeggiata da sempre da tutte le istituzioni religiose, di uno spirito potente e malvagio che fin dai tempi mitici dell’Eden opera per il male dell’uomo in opposizione al Bene supremo, e a cui sono stati attribuiti nomi come Diavolo, Satana, Ahriman, Belzebub e decine di altri, la risposta non può che essere cercata nella natura umana, frutto di milioni di anni di evoluzione biologica, e non certamente in un disegno predeterminato con il fine ultimo di una punizione o di una ricompensa in uno dei molti mondi ultraterreni, creazione, o meglio ancora, invenzione, dei sistemi religiosi.

Questo antichissimo dilemma trova un tentativo di spiegazione e di risposta in una profonda e interessante autoanalisi che il vero fondatore del Cristianesimo, Saulo di Tarso, elabora nella sua Lettera ai Romani 7:15-25: “Non capisco infatti quello che faccio: non eseguo ciò che voglio, ma quello che detesto. E se faccio ciò che non voglio, riconosco la bontà della legge. Quindi non sono più io a farlo, ma il peccato inabitante in me. So infatti che non abita in me, cioè nella mia carne, il bene: poiché volere è a mia portata, ma compiere il bene no. Infatti non faccio il bene che voglio, bensì il male che non voglio, questo compio. Ora, se faccio ciò che non voglio, non sono più io a farlo ma il peccato che abita in me. Trovo pertanto questa legge contrapposta a me che voglio fare il bene: il male incombe su di me. Acconsento alla legge di Dio nel mio intimo, ma vedo una legge diversa nelle mie membra che osteggia la legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte? Grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore! Dunque io stesso con la mente servo la legge di Dio, con la carne servo la legge del peccato” (Nuovo Testamento, Greco – Latino – Italiano. San Paolo, 2010).

Gli interessanti versetti di Paolo appena letti, che qui si immergono pienamente nella teologia molto più che nella catechesi, possono essere esaminati da prospettive diverse, ma se andiamo fino in fondo, senza pregiudizi confessionali, troveremo che in essi Paolo in effetti perora la sua innocenza e si autoassolve dal male che fa. Egli, infatti, attribuisce il male non alla sua mente, alla sua volontà, che è ciò che conta nell’essere umano, ma al “peccato” (amartìa), quell’elemento trasmessogli, insieme a tutto il resto del genere umano, da Adamo, il primo uomo, come se si trattasse di un gene codificato nel DNA che si trasmette per tutte le generazioni umane, venendo così classificato come “peccato originale” e che, se fosse vero, farebbe del Creatore un ingiustificabile sadico e genocida. Se, a prescindere dall’analisi della filosofia paolina sul bene e sul male, sulla quale sono stati versati fiumi di inchiostro dalle più brillanti menti esegetiche degli ultimi duemila anni, anteponiamo la esistenza esclusivamente mitologica di “Adamo”, il discorso potrebbe già chiudersi qui: niente “Adamo”, niente “peccato originale”, niente morte per averlo ereditato nostro malgrado. E così dovrebbe anche essere senza alcuna difficoltà, se sostituiamo le parole usate da Paolo per il suo tormento interiore con altre più acconce a spiegare l’eterna lotta fra il bene e il male che agita gli esseri umani sin dalla loro presa di coscienza, accompagnata dal ragionamento e dalla riflessione.

Innanzitutto bisognerebbe comprendere cosa intende Paolo, e cosa intendiamo noi con “peccato”. È pacifico che, quando si parla di peccato, si sta parlando di qualcosa che ha a che fare con Dio, al quale resta affidata la retribuzione finale per chi pecca. Inoltre Paolo – e lo giustifichiamo per questo – commette un errore madornale quando, parlando di sé stesso, fa una distinzione fra il suo “io” mente, nous, e il suo “io” corpo (o, carne [sárka]), nella quale la mente è la “buona” e il corpo è il “cattivo”. Egli ne è fermamente convinto perché, ovviamente, sconosce la psicologia, la psicoanalisi, l’analisi introspettiva e tutte le scienze che con il trascorrere del tempo ci hanno aiutato a guardare meglio in noi stessi e, pertanto, individua due “leggi”: la legge di Dio e la legge del peccato. Paolo non si rende conto che il suo parallelo non regge: non si possono mettere sullo stesso piano una persona come Dio e un pensiero astratto come il peccato. Se il peccato ha una sua “legge”, chi ne è il legislatore? Paolo qui non fa alcuna menzione dell’Avversario, del Diavolo, ciò nonostante sa che in lui c’è una legge che contrasta con quella del creatore. E quando dice, autoassolvendosi, che “se faccio ciò che non voglio, non sono più io a farlo ma il peccato che è abita in me”, in tal caso bisognerebbe punire questo “peccato” che ha preso stabile dimora nel suo corpo carnale, e non il suo contenitore.

Tornando ad un discorso con minori astrazioni e sofismi, Paolo credeva nel dualismo corpo-anima, nel quale nell’anima risiedono le volontà morali, mentre nel corpo solo quelle carnali o “malvage”. Su questo errore egli edificò la sua dottrina, ignorando che non esiste dualismo ma che è solo la mente, il pensiero (sképsi), a determinare il comportamento complessivo di ogni essere umano. A tal riguardo sono più incline ad accettare il ragionamento di Giacomo, “fratello” di Gesù, che scrive: “Donde vengono le guerre e le liti tra di voi? Non forse dalle vostre passioni, che si combattono nelle vostre membra?” Le passioni sono la brama di potere, il desiderio di uccidere chi ci ostacola, l’invidia dei possessi altrui. E non sono questi, forse, i moventi delle guerre e delle ostilità fra gli esseri umani? Secondo Giacomo la soluzione consiste nel “sottomettersi a Dio e opporsi al Diavolo” (vs. 7). Ma poiché, fino a prova contraria, non esistono né l’uno né l’altro, l’unica cosa che può cambiare tutto è cambiare la nostra natura, e poiché anche questo non è possibile, per lo meno per alcuni altri milioni di anni, come abbiamo detto altrove, è necessario riconoscere l’inutilità degli sforzi per cambiare la natura umana (N. Bobbio, Lezioni sulla guerra e sulla pace) e cercare una via di mediazione perché si possa infine riconoscere la prevalenza del Diritto per potere finalmente fare il nostro ingresso in quella che Bobbio definisce L’età dei diritti, fra i quali il più importante è certamente quello del diritto alla pace. Ma come abbiamo accennato in altro recente articolo, se la pace è un diritto fondamentale, come considerare la reazione di difesa da parte di una nazione aggredita e invasa?

Fu questo un dilemma che tormentò a lungo Bobbio. In un’intervista del 1991, riguardante la Guerra del Golfo, a due domande distinte se la guerra fosse giusta e, oltre che giusta, potesse essere efficace, egli rispose: “la risposta è indubbia: è una guerra giusta perché è fondata su un principio fondamentale del diritto internazionale che è quello che giustifica la legittima difesa”. Fondamentalmente Bobbio era un pacifista, ma non un pacifista a oltranza. Non lo era per partito preso, essendo un realista, tanto è vero che dopo la minaccia di una guerra nucleare sempre più concreta, spiegò che la soluzione della pace non era più l’alternativa e che la condizione atomica rende impossibile pensarvi. “Non si pone più un’alternativa, per esempio, tra libertà e guerra, e l’unica opzione restante è tra vita o morte: tra essere o non essere”. Spiegò lui stesso che parlando di una «guerra giusta» intendeva alludere a una guerra legittima dal punto di vista del diritto internazionale, e sotto questo profilo era pressoché indiscutibile che l’occupazione militare del Kuwait da parte delle forze armate irachene rendesse legittimo un intervento armato condotto sotto l’egida delle Nazioni Unite, e spiegò anche – e questo è molto importante – che era forse errato l’uso dell’espressione “guerra giusta”, ma che lo fosse quella di guerra ‘giustificata’, in quanto era la risposta a un’aggressione, e a nessuno può essere negato il diritto, più che legittimo, di difendere sé stesso, la propria famiglia, i propri beni, la propria patria, quando queste sono messe in pericolo di morte. L’eventuale obiezione di coscienza, in casi del genere, perde ogni valore e significato. Oggi, ancor più che al tempo di Bobbio, il confine tra la guerra e la pace si è maggiormente assottigliato. In un articolo di Fabrizio Dragosei sul Corriere della Sera del 26 settembre scorso, egli riferisce, condensandolo, il pensiero di Putin al riguardo: “Pronti a usare l’atomica”. Minacce del genere non pronunciate da un fanfarone come Salvini o da un chiacchierone come Vannacci, hanno un peso incredibile sullo scenario internazionale, specialmente alla luce del fatto che in questo momento vi sono 12.000 testate nucleari in mano a 9 paesi, delle quali 2.100 pronte all’uso, l’88% delle quali in mano a Stati Uniti e Russia.

È evidente che a fronte di uno scenario del genere, inedito fino allo scoppio delle atomiche sul Giappone, qualunque teoria sulla guerra, giusta o ingiusta, qualunque filosofare sulle vie della pace, oggi sarebbe sicuramente riconsiderato da chi vi aveva dedicato la sua vita e i suoi studi. Kant, Hobbes, Kelsen, Locke e lo stesso Bobbio avevano contezza di migliaia di guerre del passato, in cui ad esser messa in pericolo era la vita delle milizie combattenti e la distruzione di beni, ma mai l’estinzione totale della vita sulla Terra. A Bobbio fu posta una volta una domanda: “Perché non lascia tutta la faccenda ai signori che se ne intendono?” “Per una ragione molto semplice – rispose – questi signori non esistono”. L’interlocutore ribatté: “C’è sempre un competente in ogni ramo”. “Ma già questa è la cosa più terribile: che lei consideri la distruzione del mondo come un ramo fra gli altri”. Ecco il perché di una stringente necessità della riconsiderazione del pregevole pensiero dei nomi illustri appena citati, alla luce di fatti del tutto inediti – e una volta anche impensabili – che ora ci pongono di fronte al dilemma angosciante: quale guerra, quale pace?

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