Cos’è la felicità?

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Una delle caratteristiche fondamentali dell’animo umano, da tempi immemorabili ad oggi, è sempre stata la ricerca della felicità, di quella condizione che ci permette di godere al massimo del dono della vita, nella quale non vi è sofferenza né dolore, ma soltanto gioia e piacere. Ed è naturale che sia così, dato che la vita umana viene spesso vissuta in condizioni che sono l’esatto opposto di quel desiderio. Non per nulla, infatti, sin dai tempi più remoti gli uomini hanno immaginato che un luogo in cui vivere, circondati dalla felicità, sarebbe stato possibile. Questo luogo ha assunto diverse denominazioni, la più nota delle quali è l’Eden o il giardino dell’Eden nella tradizione religiosa ebraica. Ma, molto prima che l’anonimo scrittore del libro della Genesi redigesse il suo testo, secoli prima, in Mesopotamia il mito era già conosciuto dai Sumeri con il nome di Dilmun, i greci lo chiamavano Giardino delle Esperidi e molti di noi oggi, sedotti dalla fantasia di James Hilton, vorrebbero vivere nella mitica Shangri-la, nascosta fra le nevi eterne dell’Himalaya.

La ricerca della felicità, quindi, è antica come la Storia stessa. Nelle pagine iniziali del primo libro di quella che è quasi universalmente considerata la prima opera storiografica dell’Occidente, le Storie di Erodoto, troviamo che la ricerca della felicità è presente nel resoconto inaugurale dei “grandi e meravigliosi accadimenti” delle vicende umane, ma è nei secoli fra il XVII e il XVIII, la cosiddetta età dell’Illuminismo, che un considerevole numero di uomini e di donne si sono avvicinati per la prima volta alla nuova idea che potevano essere felici, anzi che dovevano esserlo, in questa vita. Idea, come abbiamo visto, non priva di precedenti, ai quali possiamo aggiungere anche i Campi Elisi o le Isole dei Beati. Tanto forte e radicata nell’animo umano è questa esigenza, questa ricerca che, per la prima volta nella storia, essa fu inclusa in un fondamentale documento politico: la Dichiarazione d’Indipendenza di Thomas Jefferson, terzo presidente degli Stati Uniti. In essa, nel 1776, Jefferson scriveva che: “Noi riteniamo che queste siano verità autoevidenti: che tutti gli uomini sono creati uguali; che sono dotati dal loro creatore di diritti inalienabili; che fra questi vi sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità”. Parole illuminate che hanno decisamente plasmato il cuore e la mente dei suoi concittadini americani, facendo della loro patria la prima grande democrazia del mondo moderno che, però, come tante altre, si sta man mano appannando. Però è bene prestare attenzione ad un particolare. “Diritto inalienabile” non è la felicità, bensì la sua “ricerca”, e questo perché ogni essere umano ha il diritto di stabilire per sé stesso cos’è la felicità; essa non può essere descritta in termini giuridici e far parte di un documento, perché la felicità è una “condizione”, una sensazione, uno stato d’animo che una volta acquisito può anche andar via così come è venuto, in base alle condizioni oggettive e soggettive dell’individuo e dei diversi momenti della sua vita. Tanto è vero che, come si narra, Benjamin Franklin a un americano deluso, che si lamentava che il suo paese non gli garantiva la felicità – e quindi non rispettava i patti – egli replicò: “La Costituzione ti dà solo il diritto di cercare la felicità. Ma devi trovarla da solo”.

Parole semplici, ma di fondamentale importanza; ci aiutano a capire che un nostro diritto è la sua ricerca, non il suo ottenimento che, probabilmente, non conseguiremo mai del tutto o in modo soddisfacente. Fu Sigmund Freud a dichiarare che “l’infelicità è endemica alla vita” e che dovremmo imparare a conviverci, ma fu John Stuart Mill che gli rispose: “Senza dubbio è possibile fare a meno della felicità; diciannove ventesimi dell’umanità lo fanno involontariamente, anche in quelle parti del mondo attuale profondamente immerse nella barbarie; e spesso l’eroe e il martire lo devono fare volontariamente”. Ma che questa diventi una scusa per accettare passivamente la sofferenza evitabile era per lui inconcepibile. L’imperativo morale del figlio dell’Illuminismo rimaneva quello delle principali figure religiose che l’avevano preceduto: dobbiamo impegnarci ad alleviare il dolore degli altri. (Storia della felicità. Dall’antichità a oggi, Darrin M. McMahon, Garzanti, 2007).

L’osservazione di Mill è valida oggi come nella seconda metà del XIX secolo. Tuttavia c’è una profonda differenza tra l’ambire ad alleviare le sofferenze insensate e il tentativo di superare la “normale infelicità”, l’irrequietudine e il desiderio inerenti al nostro essere uomini. Ma oltre a Mill e ad altri illustri pensatori dei secoli scorsi, di cui parleremo, spostandoci a Oriente troviamo un profondo saggio sull’argomento, scritto dallo stesso Dalai Lama, L’arte della felicità: un manuale della vita, secondo il quale la rivelazione fondamentale del Buddha, la prima delle “Quattro nobili verità”, è che la vita è sofferenza. In qualche modo sembra che ciò sia stato dimenticato.

Poc’anzi abbiamo citato Thomas Jefferson; se, adesso, ci trasferiamo sull’altra sponda dell’Atlantico qualche anno più tardi, nel 1786, troviamo che gli stessi principi furono posti a base della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, secondo la quale: “I Rappresentanti del Popolo Francese costituiti in Assemblea Nazionale, considerando che l’ignoranza, l’oblio o il disprezzo dei diritti dell’uomo sono le uniche cause delle sciagure pubbliche e della corruzione dei governi, hanno stabilito di esporre, in una solenne dichiarazione, i diritti naturali, inalienabili e sacri dell’uomo, affinché questa dichiarazione, costantemente presente a tutti i membri del corpo sociale, rammenti loro incessantemente i loro diritti e i loro doveri; affinché maggior rispetto ritraggano gli atti del Potere legislativo e quelli del Potere esecutivo dal poter essere in ogni istante paragonati con il fine di ogni istituzione politica; affinché i reclami dei cittadini, fondati d’ora innanzi su dei princìpi semplici e incontestabili, abbiano sempre per risultato il mantenimento della Costituzione e la felicità di tutti”.

Secoli prima, Cicerone, nei suoi frammenti dell’Ortensio, aveva scritto, allineandosi così ai principi che molto tempo dopo sarebbero stati inclusi nelle legislazioni occidentali: “La sola ricerca della felicità più grande, non il suo conseguimento, è un premio superiore a tutte le ricchezze umane, gli onori e i piaceri fisici”.

Alla ricerca e all’ottenimento della felicità hanno dedicato opere immortali uomini ormai consegnati alla storia, come sant’Agostino, Matteo e Luca nei Vangeli omonimi e tanti, tanti altri. Ma ciò che accomuna tutte le loro riflessioni, costituendo la sintesi del loro pensiero, è che la felicità è un dono, una ricompensa, il riconoscimento di una vita vissuta rettamente, ma che sarà conseguito soltanto dopo la morte; basta pensare alle parole di Matteo (5:3-11) dove egli dichiara felici i poveri in spirito, i miti, i pietosi, i puri di cuore, i pacifici, i perseguitati per amore della giustizia. Felici, sì, ma quando? La conclusione è che questa felicità come ricompensa di una vita virtuosa avrà luogo non su questa terra, nel corso della nostra vita, ma “nel regno dei cieli”. Si tratta, quindi, di una felicità postuma che alla maggior parte delle persone interessa poco o punto, perché è aspirazione di tutti noi, o per lo meno della maggioranza di noi, quella di conseguire la felicità “qui e adesso”, perché non sappiamo che farcene di qualcosa che avverrà, se avverrà, in un indeterminato tempo futuro, e solo a chi è credente; per chi non lo è, promesse del genere non rivestono il minimo valore. La conferma che per chi è credente non ci si può attendere la felicità in questa vita, ce la fornisce Agostino d’Ippona, che nella sua opera più nota, La città di Dio, intitolò un intero capitolo d’essa La vera felicità, che è inattingibile in questa vita. In seguito, un suo correligionario, Tommaso d’Aquino, in uno dei capitoli della sua Summa Theologiae scrive che “La felicità ultima dell’uomo non è in questa vita” e che “la vera felicità è impossibile in questa vita”, ma solo in cielo. E ancora una volta noi rispondiamo: e se il “cielo” e il suo dio non esistessero? Dobbiamo rinunciare per sempre alla felicità o, almeno, a qualche briciolo d’essa? Certamente no, ma a qualcosa dobbiamo comunque rinunciare, e cioè a includere nella felicità, nella sua ricerca, nel suo conseguimento, il soprannaturale, il post mortem, perché in tal caso sarebbe una vera e propria presa in giro di chi vi aspira; sarebbe come dire ad una persona che sta morendo di fame e di sete: “sii felice, perché quando morrai sarai dissetato e saziato”. Il danno e la beffa, come tutto ciò a cui si aggrappa l’uomo quando si accorge che i suoi strumenti non sono in grado di risolvere i suoi grandi problemi, e l’ottenimento della felicità è uno di questi, e allora delega il tutto ad un’Autorità Superiore che, in un indeterminato tempo futuro provvederà. Opinione, questa, pienamente condivisa da Schopenhauer, per il quale “non esiste alcun Dio e la volontà di vivere è priva di ogni significato teleologico e di qualsiasi scopo”. Pertanto, parlando di felicità, dobbiamo fare affidamento solo su noi stessi e renderci conto che non stiamo parlando di una ricompensa per un virtuoso modo di vivere, ma di una condizione che dipende solo da noi stessi, e comprendere, anche, che la felicità non può essere una condizione permanente della vita umana, ma che essa si manifesta “a sprazzi”, che illuminano i nostri momenti bui e che ad essi dobbiamo guardare, perché altrimenti non riusciremo mai a conseguirla. A questo argomento degli “sprazzi” è dedicato un recente saggio di grande successo: “Sprazzi di felicità. Storie (poco) comuni per chi cerca la felicità” (Federico Capuano, 2024), che varrebbe la pena di leggere.

Gli “sprazzi” possono derivare da tante cause, delle quali a volte non ci rendiamo conto perché, come scrive Raffaele Morelli: “A volte vengono a trovarmi sprazzi di felicità e di gioia che non pensavo potessero esistere, a volte sento una tranquillità che arriva dal profondo e, soprattutto, che arriva senza motivo”. (Alle radici della felicità, 2024) Magari il motivo c’è, ma giace nel nostro subconscio e non ce ne rendiamo conto. Ma è questa la felicità: il godere di momenti in cui ci sentiamo più leggeri, meno gravati dal peso della vita, spesso dovuti all’incontro con una persona cara, o alla lettura di qualcosa che ci tocca profondamente, o alla visione di qualcosa che ci fa riflettere. Dimenticarsi di sé in un’attività che ci assorbe completamente, “immergersi” completamente in una causa o in una ricerca, spesso porta indirettamente alla felicità. E, se c’è un augurio che è il più importante di tutti, è quello di invocare per chi amiamo una fitta di felicità, quella contrazione dello stomaco che sembra all’improvviso sciogliere tutti i nodi, tutte le difficoltà, e nel far scendere nel cuore una sensazione di serenità e di pace.

Il concetto di felicità, pertanto, ha osservato Immanuel Kant: “È talmente indeterminato che, per quanto tutti desiderino la felicità, nessuno riesce a esprimere in maniera chiara e coerente, ciò che desidera in concreto” (Fondamenti della metafisica dei costumi, La Nuova Italia, 1963). Molti filosofi, sin dai tempi più remoti, si sono cimentati nel tentativo di darle una definizione; fra di essi Aristotele, secondo il quale il bene supremo dell’arte di vivere, il bene rispetto al quale tutti gli altri sono semplici mezzi, il fine che è completo in e per sé stesso, è la felicità. Ed è sempre il grande pensatore greco che nella sua Retorica afferma: “Possiamo definire la felicità come la prosperità unita alla virtù; o come una vita indipendente; o come il sicuro godimento del massimo di piacere; o come una buona condizione di beni e di corpo, unita al potere di difendere i propri beni e il proprio corpo e di farne uso. Che la felicità sia una o più di queste cose, quasi tutti lo ammettono”.

Era grande, anzi grandissimo, Aristotele, ma era un uomo del suo tempo, e non gli si può chiedere di anticipare i millenni di riflessione che seguirono al suo. Come tutti gli altri suoi coevi egli nutriva delle idee che oggi sarebbero considerate indegne di un uomo come lui, sia riguardo alla condizione delle donne che degli schiavi e dei bambini; e anch’egli, come quasi tutti, alla fine poneva Dio come il supremo raggiungimento della felicità. Mi permetto di dissentire da Aristotele e definire tutti i suoi componenti della felicità con altre definizioni: benessere, serenità, sicurezza, salute, amicizia, amore. Ma la felicità è altro e, sperando di non deludere chi legge, vorrei scendere di parecchi gradini dall’empireo dei sommi pensatori di tutti i tempi, e ricondurre la felicità a qualcosa di più semplice, per così dire terra terra, ma efficace e alla portata di tutti. Affidare, quindi, la sua definizione ad un motivetto popolare di molti anni fa che, fra le altre cose, così definiva la Felicità: “Tenersi per mano, andare lontano/ sguardo innocente in mezzo alla gente/ restare vicini come bambini/ bicchiere di vino con un panino/ un biglietto dentro il cassetto/ un cuscino di piume, l’acqua del fiume che passa e che va/ la pioggia che scende dietro le tende/ abbassare la luce per fare la pace/ una telefonata non aspettata …”. La felicità, contrariamente a quanto pensavano gli antichi delle quattro grandi scuole di pensiero ateniesi, secondo me è una condizione soggettiva, non oggettiva. Non esiste un metro comune per la felicità. Ciò che rende felice una persona, può lasciar indifferente un’altra; e, molto spesso, la felicità è strettamente legata al rapporto che abbiamo con gli altri, con quelli che ci sono più vicini il cui benessere e la cui felicità sono importanti per noi. Non possiamo, quindi, definire la felicità perché vi sono 8 miliardi di tipi di felicità, uno per ogni persona che vive sulla terra. Ed è questa felicità che auguriamo a tutti.

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