La Parlesia, un linguaggio contro

tempo di lettura: 3 minuti
Pino Daniele, disegno di A. Nacarlo

 Un chiaro di luna, la fresca brezza di una sera di settembre, un balconcino adorno di fiori. Dietro ai vetri una ragazza ascolta il suo spasimante in strada, accompagnato da suonatori di chitarra e mandolino, che intona una dolce melodia. Un idillio un po’ retrò che ci porta alla mente il topos della serenata. Niente di più romantico o melenso, direte. In realtà, accantonando i sentimenti degli innamorati, presenti sulla scena ci sono anche dei lavoratori: i musicisti o meglio i posteggiatori che stanno “appunendo una santosa” per “’o jammë ra bbanèsia” (eseguendo una serenata per un committente). Ecco un esempio di Parlèsia, l’antico slang di musicisti e teatranti di strada, mutuato dal linguaggio “furbesco” della malavita, che raccoglie un vocabolario ricco di termini e significati riservato agli iniziati.
Conosciamo il gergo degli affiliati alla “onorata suggità” ottocentesca grazie allo studio fatto dall’antropologo Emanuele De Blasio sui camorristi ospiti delle patrie galere del regno. È noto l’Argot parigino parlato alla corte dei miracoli, il Furbesco, lo Zerga, lo Zingaresco usato in tutta la Penisola dalla mala o dai furfanti professionisti, ma per quale motivo dei semplici musici avevano bisogno di un linguaggio esoterico usato per poter comunicare in pubblico senza farsi capire dagli estranei? Secondo la storiografia tutto nasce nel XVI secolo quando le compagnie di girovaghi (attori, saltimbanchi, musicisti) venivano considerati alla stregua di criminali. Quella del musicista, o meglio musicante, non era vista come una professione altamente apprezzata come lo è oggi, anzi, i musici erano una specie di popolazione nomade, sempre in giro a suonare per guadagnare pochi spiccioli per poi andare in osteria, dediti ai piaceri più viziosi della vita e per questo considerati alla stregua dei malavitosi. Il potere, esercitato dalla Chiesa e dai Viceré, guardava con occhio sospetto chiunque esercitasse un mestiere di strada. La stessa libertà dei musici ambulati poteva trasformarsi in un pericolo per l’ordine costituito. Infatti al popolo i posteggiatori piacevano, e molto. Questi elaboravano nuove rime e musiche per esprimere ironicamente, sotto forma di innocue canzoncine, quei malumori nei confronti della casta dominante che la gente comune non poteva rivelare, pena la morte. Iniziarono così ad inventarsi questo linguaggio da consorteria, un dialetto nel dialetto a cui venne dato il nome di Parlèsia (dal catalano Parles, linguaggio).
La Parlèsia non ha neologismi, adotta i vocaboli della lingua napoletana alterandone il significato, decontestualizzandolo a secondo della situazione. I sostantivi sono ridotti all’osso, i verbi fondamentali del gergo sono Appunire e Spunire, usati rispettivamente per evidenziare gli aspetti positivi e negativi di una situazione. Le caratteristiche fonetiche e sintattiche della composizione di una frase rimangono invariate rispetto alla parlata comune. Per capirne il meccanismo risulterà utile indicarne alcuni lemmi tratti dal testo “I vagabondi, il gergo, i posteggiatori. Dizionario napoletano della parlèsia” della ricercatrice Maria Tereso Greco.

ANDARE PER LA CHETTA – “girare il piattino fra i clienti”.

APPUNÌ – “capire, arrivare, combinare, lasciar credere, e via di seguito secondo il discorso”.

ACCAMUFFA’ – scoprire l’inganno, capire il gioco.

BBÀCHËNË – “inetto”.

BBAGARIA – “l’atto sciocco, inutile, dannoso”.

BBACONË – “persona cattiva, sciocca, inetta”.

BBANE- “moneta sonante”

BANESIA – “tutto ciò che riguarda i pagamenti”

A CCAUTTË – “qui, a destra”.

A LAUTTË – “là, a sinistra”.

CHIARÓSA – “l’osteria, la cantina, la trattoria”;

CHIAVETTË, FA’ IND’E CHIAVETTË – “prendere una stecca, situazione pericolosa”.

CHIDDÉ – “bella o bello, sessualmente attraente”

CHIBBUÈNZIA -“il cibo”.

CHIARÈNZIA – “il vino”.

ADDÓ VA – “fare silenzio, attenzione; essere appartenente alla comunità lgtbq+”

JAMMA – “la donna.”

JAMMO – “l’uomo.”

JAMMONE oppure SPICCHïO – “La persona anziana”.

NGASANZA – “La galera”

VIGLIANDË – “gli spettatori”.

SËNTOSA – “la serenata”; e via discorrendo…
La Parlèsia è rimasta in uso ed ancora appannaggio dei soli iniziati fino alla metà del secolo scorso, quando ancora tantissimi erano i musicisti che lavoravano ad ingaggio e si riunivano sotto la galleria Umberto in attesa di essere scritturati.

Racconta lo storico della musica Roberto De Simone, nel suo libro “Satirycon a Napoli ‘44”, che durante l’occupazione alleata se ne facesse ancora largo uso soprattutto per confondere i soldati anglo-americani. Con l’avvento della tecnologia di massa e l’arrivo di radio e giradischi la Parlèsia sembrò estinguersi insieme ai posteggiatori. Ma negli anni Settanta del secolo scorso una nuova scuola di musicisti si affacciò sulle scene della canzone napoletana. Non più dolci melodie ma canzoni di protesta, non solo chitarre e mandolini ma sassofoni e bassi elettrici. L’impegno sociale gridato a pieni polmoni fa di questi artisti un megafono della coscienza di questa città, la Napoli alta e d’animo nobile che non si piega al degrado culturale imposto dalle condizioni di vita sfavorevoli, a loro volta effetto del controllo diretto della malavita sui gangli vitali dell’economia locale. Un’autentica forma di resistenza artistica alle storture che da sempre affliggono questa città e tentano di insultare l’assoluto valore della sua storia e della sua cultura: Pino Daniele, James Senese, Tony Esposito, Tullio De Piscopo, i fratelli Bennato, Enzo Avitabile oppure gruppi come la Nuova Compagnia di Canto Popolare solo per citarne alcuni. La Parlèsia rifiorisce sulle bocche dei nuovi menestrelli come simbolo identitario contro l’omologazione culturale, viene riportata in auge proprio da loro ed entra a far parte dei testi delle canzoni come Tarumbò e Bella ‘Mbriana dell’indimenticato Pino Daniele.

In conclusione questo linguaggio segreto, nato tra le strade e le piazze, non è solo una curiosità del passato, ma una testimonianza viva della capacità di un popolo di preservare e reinventare le proprie radici. Attraverso le voci dei moderni cantori, la Parlèsia continua a raccontare la storia di una Napoli che resiste all’appiattimento anglofono, mantenendo intatta la sua anima più autentica.

4 commenti su “La Parlesia, un linguaggio contro”

    1. Antonio Nacarlo

      Grazie Raffaele, nessun capolavoro, solo il frutto di mille e disparati interessi mai focalizzati del tutto. Grazie di cuore

  1. Elio Mottola

    Condivido in toto l’apprezzamento espresso dal sig. Catania aggiungendo che Antonio Nacarlo riesce sempre a sorprenderci per l’originalità del temi trattati. Come se Napoli sia, ed in effetti lo è, al centro di tante realtà diverse e talvolta tra loro contrastanti. Una sorta di riscrittura attualizzata dell'”Oro di Napoli”, espressione realistica, tra il riso e il pianto, di questa nostra città che speriamo non cada nell’oblio: Cosa, ahimè altamente probabile.

    1. Antonio Nacarlo

      I tuoi commenti mi emozionano sempre mister, tuo tutto il merito di avermi spinto lungo la strada della scrittura (quella non chiusa nel cassetto di fianco ai sogni e alle bolette da pagare). Con un lavoro di maieutica platonica, hai fatto nascere e fiorire un fiume di parole che tenevo chiuso, nel cuore e nella testa, da anni e che credevo, sbagliando, che non interessassero a nessuno… Coppola n’terra

Rispondi

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Torna in alto