Democrazia e ignoranza politica

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Quello del titolo sembra un binomio piuttosto singolare, ma vedremo che non è affatto così, anzi, è tutto il contrario. Già nel XIX secolo, uno dei più illuminati presidenti degli Stati Uniti, Thomas Jefferson, in una lettera a William J. Jarvis del 28 settembre 1820, così affermò: “Non conosco alcun depositario certo dei poteri ultimi della società che non sia il popolo stesso, e se noi non lo crediamo sufficientemente illuminato da esercitare questo controllo con salutare giudizio, il rimedio non consiste nel rimuovere l’esercizio di quel potere, ma nell’informare meglio il suo giudizio per mezzo dell’istruzione”. E, certamente, è l’istruzione l’antidoto all’ignoranza. Questa è l’opinione di Ilya Somin che, nel suo Democrazia e ignoranza politica (IBL libri, 2015), con sagacia e acume affronta questo delicato aspetto della vita delle democrazie, ricordandoci che democrazia è un termine greco che origina da démos, ossia il popolo, e cràtos, cioè potere, da cui democrazia o “governo del popolo”. In sintonia con il pensiero di Jefferson era anche quello di un altro grande presidente americano, James Madison, quarto presidente degli Stati Uniti che, in una “lettera a William T. Barry”, scrisse: “Un governo popolare senza informazione popolare o senza gli strumenti per raggiungerla, non è che il prologo di una farsa o di una tragedia, probabilmente di entrambe. La conoscenza dominerà sempre l’ignoranza. E un popolo che vuole governarsi da sé deve armarsi del potere che procura la conoscenza”.

Solo chi chiude gli occhi e le orecchie davanti alla realtà può negare che sia gli Stati Uniti che i paesi europei, il cosiddetto Occidente, sono affetti da una diffusa ignoranza politica, e questa non è una novità, se già nel 64 a.C. Quinto Cicerone scrisse al suo più famoso fratello Marco Tullio Cicerone, che in quel tempo era impegnato nella campagna per l’elezione al consolato (la carica più alta della Repubblica), una lunga lettera sulla strategia elettorale. Per conquistare il sostegno popolare, Quinto suggeriva al fratello di “promettere a tutti i suoi servigi”, dato che gli elettori ignoranti e creduloni difficilmente avrebbero chiesto al candidato di rendere conto delle promesse contraddittorie fatte in campagna elettorale (Manualetto di campagna elettorale di Quinto Tullio Cicerone, Salerno editrice, 2006).

È un fatto sotto gli occhi di tutti che un efficace controllo democratico richiede che gli elettori abbiano almeno una certa conoscenza della politica. In generale, gli elettori non possono chiedere conto agli eletti delle loro azioni se non sanno cosa fa il governo. E non possono sapere quali proposte dei candidati corrispondono maggiormente agli interessi degli elettori se non hanno almeno un certo grado di conoscenza della natura di quelle politiche e dei loro probabili effetti. Ed è qui che sorge un problema difficile da dipanare, un problema che ha a che fare con la natura umana, contro le pulsioni della quale è quasi del tutto inutile affannarsi a cercare soluzioni. Oggi, a differenza del tempo di Cicerone, di Madison o di Jefferson, i politici possono avvalersi di mezzi del tutto sconosciuti in precedenza: si tratta dei mass media, radio, televisione, internet, non trascurando i vecchi ma sempre efficaci comizi, che consentono ai candidati di turno di spararle sempre più grosse senza tema d’essere contraddetti o smentiti. E chi sono i candidati di turno? Sono persone, esseri umani, che sono dominati da una passione in particolare: quella del potere, per ottenere il quale sono disposti a tutto e “promettere a tutti i loro servigi” pur di farcela. Sebbene non si voglia generalizzare, ciò cui assistiamo nel nostro tempo è lo smodato egoismo di chi, avendo a cuore solo il proprio interesse e certamente non quello del “popolo”, promette a quest’ultimo mari e monti, arringandolo con veemenza e trascinandolo nel turbine dei sentimenti che a volte sfociano in sommosse perché la folla è sorda e cieca, e quando un politicante sa quali tasti toccare per esaltare le masse, li usa facendo leva sul fatto che le folle non sono razionali e che gli si può far fare di tutto, come l’assalto al Campidoglio del 2021, dove una folla inferocita e galvanizzata dal mestatore di turno, Donald Trump, non avrebbe esitato, se non fosse stata fermata, a distruggere quel tempio della democrazia che è il Congresso degli Stati Uniti.

D’altra parte, come può un popolo di mediocre cultura e di scarsissima informazione politica, raccapezzarsi quando dai rappresentanti degli opposti schieramenti gli viene martellato continuamente che la stessa cosa è giusta per uno d’essi e sbagliata per l’altro? Quando, a seconda dei giornali che legge (se legge!) trova esaurienti spiegazioni perché votare per un provvedimento del governo è la salvezza della nazione, mentre è la sua totale rovina per la parte opposta. Quando, invece di preoccuparsi di fornire agli elettori elementi validi al sostegno delle proprie posizioni, lo sport nazionale dell’Occidente è quello di demonizzare, calunniare, diffamare l’avversario, spesso con fake news che il popolo beota trangugia tutto d’un fiato.

Poiché, mutatis mutandis, le cose non sono così poi tanto diverse dal passato, una riflessione di uno dei più grandi filosofi e giuspositivista inglese del XVII secolo, autore dell’indimenticabile Leviatano, Thomas Hobbes, così si espresse: “Io per mio conto – scriveva nel 1646 – sono già da molto tempo di opinione che non vi è mai stato concetto elevato che sia piaciuto al popolo, e che una saggezza superiore alla media non può essere approvata dal volgo, perché, o non la capiscono, o, se la capiscono, l’abbassano al loro livello”. Hobbes era un convinto sostenitore della monarchia e un fiero avversario della democrazia, quindi le sue opinioni sono forse un po’ viziate da questo, ma da profondo conoscitore della natura umana ciò che lui scrive è altrettanto valido oggi che al suo tempo. Parlando delle assemblee democratiche egli afferma che il loro scopo “è quello di fare apparire all’uditorio il bene e il male, l’utile e il nocivo, l’onesto e il disonesto più grande o più piccolo di quanto siano in realtà, e di far parere giusto quel che è ingiusto secondo il fine che l’oratore si è proposto. In ciò consiste l’arte di persuadere, e per quanto l’oratore svolga le sue idee in forma logica, non parte mai da principi veri, ma da opinioni già accettate dalla massa, che per lo più sono erronee, e cerca di mantenere il proprio discorso aderente non già alla realtà delle cose, ma delle passioni che hanno investito gli animi”. Di conseguenza le decisioni finali sono prese “seguendo non la retta ragione, ma l’impulso del sentimento”, e questo perché, sempre secondo Hobbes, “lo scopo dell’eloquenza non è l’esposizione della verità (se non incidentalmente) ma la vittoria di un’idea su un’altra, e suo compito non è di ammaestrare ma convincere”.

Il trascorrere del tempo non ha cambiato quasi nulla, perché ciò che non è cambiata, né mai cambierà, è la natura umana, soggetta alle passioni, ai pregiudizi, ai preconcetti, all’appartenenza tribale. Ed era questo, secondo il grande filosofo Baruch Spinoza, il maggiore ostacolo alla realizzazione della Repubblica della ragione e della libertà, dalla natura dell’uomo e dal volgo che costituisce la grande maggioranza del genere umano … perché tutti cercano la propria utilità, ma non secondo il dettame della sana ragione, bensì sotto la spinta del capriccio e delle passioni. E poiché il loro smisurato desiderio degli incerti beni della fortuna li fa penosamente ondeggiare tra la speranza e il timore, il loro animo è quanto mai incline a credere qualsiasi cosa, e così diventano preda delle superstizioni e di chi sa sfruttare la loro paura e la loro speranza”. Parole che si affiancano a quelle del grande Jean Jacques Rousseau, secondo il quale “Chi affronta l’impresa di dare istituzioni a un popolo deve, per così dire, sentirsi in grado di cambiare la natura umana; di trasformare ogni individuo, che di per se stesso è un tutto perfetto e solitario, in una parte di un tutto più grande da cui l’individuo riceve, in qualche modo, la vita e l’essere”.

Quando nel nostro paese, nel XXI secolo, assistiamo sgomenti, dopo ottant’anni dalla sua ingloriosa fine, alle marce fasciste rievocatrici di quella su Roma, ai raduni paramilitari con camicia nera, pantaloni alla zuava, fez, orbace. Quando masse di persone che non hanno mai vissuto una sola ora della loro vita in quel regime, fanno il saluto romano e gridano a squarciagola coralmente gli slogan beceri di quell’era funesta, allora non possiamo che condividere pienamente il disprezzo di Hobbes per le masse, e pensare con gratitudine a chi ci ha liberato da quella folla urlante e gesticolante che sono i fascisti dalla prima e dell’ultima ora con i loro caporioni, e pensare sgomenti a ciò che accadrebbe se a quelle masse fanatiche e nostalgiche venisse concesso il potere di legiferare.

Il problema dell’ignoranza politica non è nuovo. Come correttamente argomenta Ilya Somin nel suo saggio: “I filosofi politici hanno riflettuto sulle implicazioni dell’ignoranza degli elettori per la democrazia da quando questo sistema di governo ha avuto la sua prima origine nell’antica Grecia, nella città di Atene. I primi critici della democrazia ateniese sostenevano che Atene era destinata alla rovina perché le sue politiche erano stabilite da comuni cittadini ignoranti. Nel Gorgia, il grande filosofo Platone ha affermato che la democrazia è imperfetta perché adotta politiche basate sulle opinioni di masse ignoranti e trascura il parere bene informato di filosofi e di altri esperti … Il grande storico Tucidide addebitava gli insuccessi della democrazia all’ignoranza del popolo … John Stuart Mill, un teorico della politica di stampo liberale generalmente favorevole alla democrazia, nutriva profondo timore per l’ignoranza politica e sosteneva che fosse giustificato conferire un potere di voto maggiore agli elettori più istruiti e informati. Il già citato Spinoza si rendeva conto di quanto fosse arduo costruire una repubblica democratica di cittadini liberi e razionali e “In ciò era affine idealmente a Machiavelli, nutriva la passione per la libertà pur constatando che la maggioranza degli esseri umani non sa volere essere libera, non sa preservare la sua libertà, e spesso si lascia ingannare da chi le promette sicurezza a prezzo della libertà” (Emilio Gentile, Il capo e la folla, Laterza, 2016).

Sembra di ascoltare le arringhe di Salvini e dei suoi sodali, quando promettono maggiore sicurezza nel respingere le masse di immigrati fra le quali vi sono (secondo loro) criminali, o quando promulgano norme che consentono ai cittadini di girare armati con l’autorizzazione a sparare a chiunque minacci la loro proprietà, o quando presentano leggi che hanno come risultato quello di aumentare la popolazione carceraria con l’introduzione di una miriade di nuove norme penali, molto spesso insignificanti ai fini della sicurezza pubblica e dello Stato. Questo accade perché, come spiegava Gustave Le Bon (XIX-XX secolo) in Psicologia delle folle (Edizioni Clandestine, 2014): “La folla è un gregge che non può fare a meno di un padrone”. Egli considerava la maggior parte dei capi politici “retori sottili che mirano all’interesse personale e cercano il consenso lusingando i bassi istinti … Le doti necessarie a un capo non sono né l’intelligenza né la cultura … La parola è lo strumento fondamentale e indispensabile per conquistare le masse”. E quindi concludeva: “nella società moderna il governo popolare «non è affatto governo del popolo, bensì governo dei suoi capi», perché «solo apparentemente governano le moltitudini. Lungi dall’essere veramente popolari, i governi rappresentano semplicemente una oligarchia di capi»”.

L’argomento è vastissimo e di estremo interesse per tutti coloro che vivono in una democrazia moderna, fatto, questo, che non ci protegge dalla retorica patriottarda dei trascinatori di folle che, da sempre, inquinano la nostra vita politica, alcuni eclatanti esempi dei quali li abbiamo menzionati in nostri recenti articoli.

“Prima conoscere, poi discutere, poi deliberare”. Facciamo tesoro di queste indimenticabili parole del nostro primo presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, affinché ci facciano da guida nel corso della nostra vita di démos, per esercitare saggiamente il nostro kràtos.

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