Cosa ci dovrebbe preoccupare?

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Disegno di A. Nacarlo

Tenersi informati sulla politica estera non è impresa facile. Conflitti e focolai di guerra dappertutto, scontri ideologici e religiosi radicati nei secoli e a volte nei millenni, tutto è di difficile lettura. Anche perché queste situazioni conflittuali durano nel tempo, hanno un loro passato non sempre decifrato e si evolvono continuamente tra nuovi scontri, nuovi massacri, nuove iniziative diplomatiche e trattative che si trascinano negli anni. Il fatto concreto di un intero paese raso al suolo e della morte di decine di migliaia di civili è ormai considerato fisiologico, come un virus in fase endemica, e come tale accettato da tutti con la sola eccezione degli eventi di particolare ferocia. Più i confitti durano a lungo e più sbiadisce sui teleschermi e sulle pagine dei giornali l’orrore quotidiano che si vive a Gaza o in Ucraina tanto per riferirsi a quelli che ci sono più vicini e che ci appaiono, pur nell’impietosa assuefazione, più pericolosi.

Certo, entrambe queste sciagurate realtà provocano in ciascuno, anche se non bene informato, reazioni di rabbia e di compassione che però vanno a braccetto con il timore di un coinvolgimento diretto. Per carità, nessuno immagina le milizie di Putin sotto casa né i missili di Netanyahu sfrecciare nei nostri cieli, ma in tutti serpeggia la paura che i conflitti possano allargarsi fino a degenerare in catastrofi ancora più cruente di quelle che abbiamo sotto gli occhi.

Come sempre, alla guerra guerreggiata si affiancano le dichiarazioni minacciose dei contendenti che creano più spavento delle immagini proposte dalla cronaca tutti i giorni, alle quali, come si diceva, stiamo facendo il callo: politologi ed analisti, ma spesso anche commentatori poco qualificati, esprimono le loro vedute raramente concordi le une con le altre. È umanamente comprensibile che allarmino e diano da pensare quelle più pessimistiche e catastrofiste. Terrorizza, com’è naturale, lo spettro di una terza guerra mondiale. Ci sono state la prima e la seconda, perché non la terza? Papa Francesco sostiene da tempo che la stiamo vivendo a pezzi e probabilmente ha ragione. Una terza guerra mondiale, che coinvolgesse simultaneamente le grandi potenze, verrebbe percepita da molti come definitiva perché potrebbe spingersi fatalmente fino all’uso delle armi nucleari.

Attualmente ne dispongono, facendo parte del cosiddetto “club dell’atomo”, Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Regno Unito, Pakistan, India e Corea del Nord; a parte si colloca Israele, che ufficialmente non ha mai né confermato né negato di possederne, ma è certo che possiede alcune centinaia di testate nucleari. Cinque Stati aderiscono al programma di “condivisione nucleare” della NATO, ospitando sul territorio armi atomiche statunitensi al fine di ricevere addestramento al loro impiego in caso di conflitto: Belgio, Germania, Italia, Paesi Bassi e Turchia. Di ordigni atomici ce n’è dunque abbastanza, ma saranno mai usati? Sono ormai là da decenni ma sembrano funzionare soltanto come deterrenti. È immaginabile che, per porre fine a un conflitto irrisolto, uno dei contendenti ne scateni la forza distruttrice? Se lo facesse nei confronti di un avversario altrettanto ben dotato, dovrebbe attendersi nel giro di pochi minuti una reazione uguale e contraria, uno scenario che appare irreale e che solo la follia potrebbe giustificare. Ci sono in giro despoti o capi di stato capaci di un simile gesto? Si, ce ne sono e quindi lasciamo aperta questa ipotesi per onestà intellettuale ma con non poche riserve. Né sembra verosimile che una bomba atomica, magari di modeste dimensioni, possa essere sganciata per soggiogare un paese che resiste con le sole armi convenzionali: la cosa sarebbe interpretata come una violazione del tacito patto di deterrenza che idealmente hanno sottoscritto tutti gli stati detentori di armi nucleari e susciterebbe comunque reazioni punitive a catena, forse della stessa portata.

Le conseguenze di un conflitto atomico sarebbero una catastrofe non solo per le popolazioni e i territori coinvolti ma anche per l’economia e la finanza globalizzate che dominano ormai il pianeta o gran parte di esso. La loro religione è la crescita del PIL cioè del profitto che, com’è noto, si basa sui consumi: se si sopprimono milioni di consumatori, i sistemi produttivi più forti rischiano di andare a picco. Sì, ci sarebbe tanto da ricostruire nei territori distrutti ma con i soldi di chi? E con quali speranze di recuperarli attraverso la vendita di beni e servizi ad una popolazione decimata?

E poi non dimentichiamo la posizione dei fabbricanti di armi, forse la lobby più forte di tutte. Che convenienza troverebbe se i conflitti in atto fossero risolti con le armi nucleari? Per lei è molto più redditizio continuare a produrre quantitativi infiniti di armi convenzionali (cannoni, razzi, missili, droni, milioni e milioni di proiettili assortiti) e, al tempo stesso, tutto l’armamentario per opporvisi. Di fatto agiscono come se Big Pharma producesse i virus e i vaccini per combatterli. Naturalmente l’industria bellica continuerà a produrre anche gli armamenti nucleari necessari a rafforzare ed estendere la deterrenza. La mia personale e discutibile opinione è che non ci saranno conflitti nucleari. Ciò non di meno l’umanità soccomberà alla logica del profitto ma soltanto per gli effetti catastrofici che il suo andamento inarrestabile avrà sull’ambiente e sul clima. Si attendono, con sincero desiderio di approfondimento, pareri diversi.

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