Un grande paese?

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L’aggettivo “grande” può assumere significati diversi. Può infatti indicare una dimensione, nel senso di ampiezza; per esempio un paese può essere definito “grande” in base alle dimensioni del suo territorio. Secondo questo parametro e senza tema d’errare, per esempio, la Russia può essere definito “il paese più grande del mondo” con i suoi 22 milioni di chilometri quadrati di superficie, ma certamente non lo è se si adopera “grande” nel senso di migliore, democratico, liberale e via dicendo. Quindi, alla luce di quanto sopra possiamo certamente definire un uomo “grande”, anche se è un piccoletto, perché il “grande” non è riferito alla sua statura o alle sue dimensioni, ma alle sue qualità. Chi ricorda qualche vecchia foto del Mahatma (grande anima) Gandhi, non può certamente aver dimenticato quanto minuscolo e insignificante fosse il suo fisico, ma quanto fosse gigantesca la sua persona! Lui è certamente collocato nel pantheon dei “grandi”.

Lo stesso discorso vale per le nazioni per le quali l’attributo di “grande” dipende da diversi fattori e certamente non dalla loro dimensione territoriale. L’America (nel senso degli Stati Uniti) è certamente un grande paese, con i suoi quasi 10 milioni di chilometri quadrati di superficie, e questo mi riporta alla mente un vecchio film con Gregory Peck, intitolato proprio Il Grande Paese, nel quale da chi lo accompagnava a esplorare le sterminate pianure dell’Ovest americano, gli fu posta la domanda piena d’orgoglio: “Ha mai visto qualcosa di più grande?”, alla quale lui rispose: “Si, un paio di oceani” (era un capitano della marina), spiazzando così il suo interlocutore.

Questa premessa è servita a introdurre l’argomento che vogliamo trattare, quello che è efficacemente rappresentato dall’acronimo MAGA (Make America Great Again), del partito repubblicano di Donald Trump, e cioè “Facciamo l’America di nuovo grande”, il che implica che l’America che Biden consegnerà al suo successore non è più il grande paese di una volta; per intenderci, dovrebbe ritornare a essere il grande paese che era durante il quadriennio trumpiano, e notevolmente sminuito durante la presidenza democratica del suo successore. Ovviamente, quando si parla di grandezza, ciascuno ha in mente la propria definizione, che non corrisponde quasi mai a quella dei suoi avversari. Per Hitler e Mussolini la grandezza era data dalla potenza dei loro eserciti, dalle loro conquiste territoriali, dalla sottomissione cui essi avevano sottoposto il loro e gli altri popoli, e questo può dirsi di quasi tutti i despoti e i tiranni del passato e del presente. Allora, cos’è che ha reso, secondo Trump, “grande” l’America prima di scivolare sempre più giù nella scala delle “grandezze” planetarie? Non bisogna dimenticare che l’America, oltre a essere grande, era, ed è, secondo i suoi abitanti, anche il paese particolarmente benedetto da Dio, tanto da avere impresso sulle sue banconote la frase “In God We Trust”, che campeggia anche nelle aule del Senato e della Camera americani; e, a chiunque abbia mai visto un film americano, non sarà certamente sfuggito che quando un presidente degli Stati Uniti pronuncia i suoi discorsi, dalla sua orazione finale non manca mai l’espressione “Dio benedica l’America”. Ci chiediamo: perché Dio, con un governo democratico, non la benedirebbe più, ma dovrebbe invece farlo con uno repubblicano? Forse anche gli americani hanno fatto propria l’espressione dei crociati di tanti secoli fa “Dio è con noi?”. L’America è un paese che sguazza nella retorica, e la conferma – tra tante altre – l’abbiamo se ascoltiamo ciò che ha detto il nuovo Speaker della Camera al momento del suo insediamento: «Mike Johnson indica il motto inscritto nell’aula, In God We Trust e dimostra di prenderlo sul serio. Non è solo il lascito storico della Guerra Fredda (il motto venne adottato dalla Camera nel 1962) per contrapporsi alla superpotenza atea sovietica. È un invito alla responsabilità di fronte al Signore: “Credo che Dio abbia fatto sì che ognuno di noi fosse qui ed ora, precisamente in questo momento storico. Questa è la mia convinzione. Credo che ognuno di noi oggi abbia l’enorme responsabilità di usare i talenti che Dio ci ha dato per servire lo straordinario popolo di questo grande Paese, che lo merita, e per assicurare che la nostra Repubblica rimanga in piedi come un grande faro luminoso, di speranza e libertà, in un mondo che ne ha disperatamente bisogno. E poi continua citando G. K. Chesterton: “… filosofo e scrittore britannico che un tempo disse: “L’America è l’unica nazione nel mondo che si fonda su un credo”. E aggiunse: “Esso è enunciato con una lucidità quasi teologica nella Dichiarazione di Indipendenza”». (La Nuova Bussola Quotidiana, 27 ottobre 2023). Se non è retorica questa …

La realtà è – per chi conosce bene questo paese – tutta un’altra. L’America, pur ricca e potente militarmente, è rimasta un Paese profondamente “provinciale”, un paese “rurale”, il paese che le grandi major cinematografiche americane ci hanno insegnato a conoscere, con il saloon, la chiesa, l’ufficio postale, l’ufficio dello sceriffo, le donne castigate e schive con cuffietta, sottomesse ai loro uomini e profondamente devote. Oltre a ciò l’America è un paese profondamente diverso da quelli europei, in quanto caratterizzato da un “melting pot” unico al mondo, cioè un miscuglio eterogeneo di razze, religioni, individui e gruppi molto diversificati fra loro. Solo a New York, con i suoi 8 milioni di abitanti, possiamo trovare una little Italy, una Chinatown, una little Vietnam, dove si parlano lingue sconosciute ai newyorkesi, e dove la vita in quelle comunità è la più lontana possibile dal cosiddetto “modello americano”, perché i loro abitanti vogliono rimanere latini, afroamericani, orientali, irlandesi, scozzesi, questi ultimi orgogliosi della loro discendenza dai colonizzatori del nuovo continente.

Poco fa abbiamo parlato di un’America rurale, e qui è necessario fare una precisazione che affidiamo alla penna di Federico Rampini sul Corriere: «Si sente spesso dire che un elettorato chiave è l’America rurale. Quasi automaticamente, questa affermazione viene seguita da una serie di stereotipi e pregiudizi: l’America “profonda” è descritta come un luogo di provinciali bigotti e ignoranti, bifolchi razzisti, un serbatoio di “risentimento bianco”. Perfino Barack Obama cadde nella trappola quando parlò di “quelli che covano amarezza, si aggrappano alla loro Bibbia, ai loro fucili, alle loro birre” (un disprezzo che non si sarebbe mai permesso contro degli immigrati che “si aggrappano al Corano”). La campionessa dello snobismo elitario rimane Hillary Clinton che definì gli elettori repubblicani “degli esseri deplorevoli”. Ecco quel che disse Hillary subito dopo aver perso le elezioni nel 2016: “Io ho vinto negli Stati dove si producono i due terzi del Pil americano. Ho vinto nei luoghi che sono ottimisti, etnicamente variegati, dinamici, proiettati verso il futuro. Gli altri guardano verso il passato”. È interessante quel passaggio perché lo stesso concetto ritorna in modo forte nella campagna di Kamala Harris: “Noi siamo il futuro, loro sono il passato” … Un luogo comune in particolare sembra irresistibile: l’America rurale è consumata dalla rabbia. E questa rabbia si sfoga contro le minoranze etniche, quindi diventa razzismo; contro le minoranze sessuali, e quindi diventa omofobia. Quella rabbia si traduce nel possesso di armi… anche se nessuna America rurale conosce tassi di omicidi lontanamente paragonabili alle metropoli progressiste di Chicago, New York, Philadelphia, Washington. Da lì, per forza, vengono quei mostri che diedero l’assalto al Campidoglio il 6 gennaio 2021. Gli stereotipi sono questi, li maneggiamo senza quasi accorgercene». È questa l’America che il prossimo 5 novembre andrà a votare, un’America descritta alla perfezione dal candidato alla vicepresidenza con Trump, J.D. Vance nel suo Elegia Americana (titolo originale Hillbilly Elegy, L’elegia dei bifolchi) nel quale troviamo la storia, in filigrana, di un Paese intero, di quel proletariato bianco degli Stati Uniti che ha espresso la sua frustrazione portando Donald Trump alla presidenza. Quella di cui stiamo parlando è l’America silenziosa che dà voce a quella classe operaia dei bianchi degli Stati Uniti più profondi che un tempo riempiva le chiese, coltivava la terra e faceva funzionare le industrie. L’America, per essere chiari, descritta magistralmente da John Steinbeck in Furore e portata sullo schermo da un grande Henry Fonda, ed anche da Harper Lee con il suo capolavoro Il buio oltre la siepe. Quel mondo non c’è più, al suo posto solo ruggine e rabbia, che ha preso il posto del “sogno americano”, che è andato via via svanendo, dopo la seconda guerra mondiale, mentre il “grande paese” combatteva una guerra dietro l’altra, quasi senza interruzioni, dando luogo a una classe di reduci disadattati, frustrati, sconfitti, non più orgogliosi di essere “l’Esercito” degli Stati Uniti, ma solo gli invasori sconfitti di paesi sovrani che essi avevano distrutto grazie alla loro superiorità militare. Se con il voler far ritornare grande l’America, Trump intende quell’America, allora sarebbe una benedizione per tutti se fosse sonoramente sconfitto e con un ampio margine di voti, perché non ritenti l’assalto al Campidoglio con la scusa dei brogli elettorali, che ci ha mostrato un’America piccola piccola mai così vicina ad un colpo di stato in stile sudamericano. Altro che MAGA!

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