Michele e la città

tempo di lettura: 6 minuti
Nu pensiero, Disegno a china di Antonio Nacarlo

“La disperazione più grave che possa impadronirsi d’una società è il dubbio che vivere rettamente sia inutile”.

Corrado Alvaro, Ultimo diario

Michele stava seduto sul divano del suo piccolo appartamento di periferia, i gomiti appoggiati sulle ginocchia e le mani che si stringevano la testa. Aveva appena ricevuto l’ennesima lettera, una multa di qualche centinaio di euro che non poteva assolutamente permettersi di pagare. Era lì da solo, mentre sua moglie, Teresa, era ancora al lavoro in una lavanderia del quartiere, e i suoi due figli, Enrico e Anna, erano a scuola.

Le parole dell’incipit della sua vita gli risuonavano nella testa come un mantra amaro. Aveva sempre creduto che con la perseveranza e l’onestà avrebbe potuto costruire una vita dignitosa per sé e la sua famiglia. “Se sei napoletano e monoreddito con figli a carico”, si ripeteva, “devi provarci con tutte le forze”. E così aveva fatto. Aveva lavorato dodici ore al giorno, si era privato di tutto, persino dei sogni, per tentare di far quadrare i conti. Ma ogni sforzo sembrava essere vano.

Quella multa dimenticata era solo l’ultimo colpo di una lunga serie di imprevisti che si erano abbattuti sulla sua famiglia. Aveva visto la macchina fermarsi in mezzo alla strada due settimane prima, il motore che tossiva e poi si spegneva per sempre. Il meccanico gli aveva detto che il costo delle riparazioni sarebbe stato astronomico. La soluzione? “Jettala sta’ buatta, accattatenne n’ata!” Aveva detto l’uomo con un mezzo sorriso che a Michele era sembrato quasi un insulto.

Ma con quali soldi? Neanche il pensiero di fare un debito era concepibile: “Chi me li presta i soldi? Sì nu’ povero ddio, Michè…”

E poi c’era stata la bolletta della luce, un conto così alto che per un attimo l’uomo aveva pensato di essersi confuso e di star guardando quella di qualcun altro. Ma no, era la sua. Iniziava a fare caldo e Teresa aveva acceso il condizionatore un po’ prima di quanto avrebbero dovuto. “Colpa mia”, aveva detto lei con gli occhi bassi, ma Michele non aveva avuto il cuore di risponderle. Sapeva che il vero colpevole era un sistema che non perdona, che non dà mai tregua, che ti stritola piano piano finché non ti resta più niente.

Quel pomeriggio, mentre osservava l’ennesima sconfitta materializzarsi tra le sue mani, Michele sentì qualcosa spezzarsi dentro di lui. Forse era solo una piccola incrinatura, ma sapeva che si sarebbe allargata col tempo, come una crepa su un muro che ormai sta crollando inesorabilmente. La differenza, però, è che questa crepa non si vedeva all’esterno; cresceva silenziosa dentro di lui, mettendo radici nel suo orgoglio incrinato.

Cosa doveva fare? A chi poteva chiedere aiuto? Aveva letto migliaia di libri nella sua vita, cercando risposte, soluzioni, ma nessuna pagina gli aveva mai svelato come uscire dal vicolo cieco in cui si trovava ora. Gli sembrava di essere intrappolato in un labirinto d’illusioni, dove ogni via d’uscita si rivelava un altro muro, un’altra delusione.

Michele si alzò, la cartella esattoriale ancora stretta nella mano. Si avvicinò alla finestra e guardò fuori. Le strade della periferia erano deserte, il cielo era grigio e basso, come se volesse schiacciarlo. Pensò ai suoi figli, al loro futuro. Che cosa stava insegnando loro? A sopravvivere, a vivere una vita di rinunce e paure? Ed in nome di quale “bene superiore o massimo fattore?” No, questo non poteva accettarlo.

All’improvviso, un pensiero gli attraversò la mente. Forse la soluzione non era nei libri, né nei santi a cui si era votato inutilmente. Forse la risposta era in una scelta più radicale, una che non aveva mai voluto considerare. Aveva sempre cercato di vivere onestamente, ma a quale prezzo? Stava perdendo la sua dignità, la sua felicità, e ora rischiava di trascinare anche la sua famiglia in un abisso da cui non avrebbero mai potuto risalire.

Strinse i pugni, sentendo la rabbia montare. Era stanco di essere solo un ingranaggio di un sistema che lo calpestava senza pietà. Forse era giunto il momento di fare qualcosa di diverso, di combattere il fuoco con il fuoco. La sua onestà, quella stessa onestà che lo aveva portato fino a quel punto, iniziava a sembrargli un lusso che non poteva più permettersi.

Prese il telefono e digitò un numero che aveva sempre avuto paura di chiamare. Una voce dall’altra parte rispose, fredda e diretta. Michele fece un lungo respiro prima di parlare: ““, disse con un filo di voce, “sono Michele. Voglio fatica’ cu’ gli amici”.

Da quel momento, sapeva che niente sarebbe più stato come prima. Stava per attraversare una linea invisibile, una che non avrebbe mai pensato di superare. Ma non c’era più tempo per le esitazioni. Non aveva più nulla da perdere. E così, con un misto di paura e desiderio dell’abisso, si preparò a scendere in un mondo che aveva sempre cercato di evitare. Ma almeno, per una volta, sarebbe stato lui a dettare le regole.

Si sedette di nuovo sul divano, il cellulare ancora caldo in mano. Le dita tremavano leggermente mentre cercava di calmarsi. La voce all’altro capo gli aveva dato un appuntamento, un’ora e un luogo. Un bar anonimo, a metà strada tra il suo quartiere e un’altra zona che preferiva evitare. In quella parte di Napoli, i confini tra ciò che era legale e ciò che non lo era sfumavano fino a diventare indistinguibili. Una Napoli che non appariva mai nei telegiornali, se non per qualche stesa delle baby gang.

La moglie tornò a casa e subito si accorse che qualcosa non andava. Michele non le disse nulla, evitò il suo sguardo, e lei, come faceva sempre, evitò di fare domande. Avevano imparato entrambi a muoversi in quella danza di silenzi, dove ognuno rispettava i vuoti dell’altro. Cenarono in fretta, i bambini parlottavano a bassa voce, e Michele uscì con una scusa banale: una sigaretta, due passi per schiarirsi la mente.

Camminò tra i palazzoni grigi del quartiere, dove la luce dei lampioni si perdeva tra i panni stesi ad asciugare, i fili elettrici tirati alla buona, i muri scrostati da decenni di incuria. Le facce che incontrava erano vuote, spente, simili alla sua. C’erano giorni in cui Michele sentiva che l’intero quartiere viveva sospeso, come in un limbo, dove il tempo passava senza lasciare traccia, dove i sogni erano stati abbandonati in qualche angolo remoto della memoria, insieme alla speranza.

Arrivò al bar. Era un locale angusto, senza insegne, con le pareti color tabacco e l’odore di fumo stantio che impregnava l’aria. Un gruppo di uomini stava seduto a un tavolo nell’angolo, parlavano a bassa voce, le loro risate erano corte e dure, prive di gioia. Michele si avvicinò al bancone, e quasi subito un uomo si fece avanti. Era alto, capelli grigi rasati, un viso segnato dalle cicatrici e un ghigno che non lasciava spazio all’interpretazione: “Tu sì o prufessore, è vero?” disse senza preamboli.

Michele annuì, con quel nomignolo lo prendevano in giro gli amici del suo vecchio quartiere, adesso sentiva un nodo in gola stringersi ancora di più: “Lucariello mi ha detto che hai bisogno di faticare”, continuò l’uomo, accendendosi una sigaretta e guardandolo come se stesse valutando un oggetto in vendita; “Nun tenè appaura, qui nessuno fa domande. Però lo sai ca’ nun se fà niente per senza niente, evvero?”

Lo sapeva. Era venuto fin lì proprio per questo, per uscire dal laccio in cui era finito. Era pronto a pagare il prezzo, qualunque esso fosse, perché aveva capito che la sua vita, quella che aveva cercato di vivere con dignità, non gli apparteneva più.

L’uomo gli porse un pacchetto: “Questo lo porti domani al mercato di Ponticelli, ai banchi di frutta. Lì trovi Salvatore, gli dai il pacco e ti prendi la tua parte. Facile, no?”

Michele afferrò il pacco senza dire una parola. Lo sentiva pesante tra le mani, un peso che andava oltre la materia di cui era fatto. Quella notte non riuscì a chiudere occhio. La testa gli ronzava di pensieri, di dubbi, ma ormai non poteva più tornare indietro.

L’indomani, alle prime luci dell’alba, uscì di casa. Teresa dormiva ancora e i bambini erano persi nei loro sogni infantili. Prese la Vesuviana, quella linea di trasporto pubblico che ormai andava avanti per miracolo, e si diresse verso il mercato. L’aria era fredda e umida e Napoli si svegliava piano, come una bestia che cerca di scrollarsi di dosso la notte.

Ponticelli era un altro mondo rispetto al suo quartiere, ma non per questo meno brutale. La gente si muoveva tra i banchi con l’urgenza di chi sa che deve guardarsi dal pericolo. Michele individuò subito Salvatore, un uomo di mezza età con una camicia sudata e uno sguardo tagliente. Gli si avvicinò e, senza parlare, gli consegnò il pacchetto.

Salvatore lo guardò appena, prese il pacco e gli allungò una busta. Michele la infilò nella tasca dei jeans senza neanche aprirla. Non voleva contare i soldi lì, in mezzo a tutti.

Prufessò, ma nun ‘o saje ca ‘e sorde, pure si se trovano n’terra, se contano!?

Michele per tutta risposta regalò al suo interlocutore uno sguardo da duro, ma, avviandosi alla fermata, imprecò contro la sua inadeguatezza di persona a modo e si prese a schiaffi solo per sfogare la tensione.

Quando si fermò in una strada isolata, aprì la busta. C’erano abbastanza soldi da coprire la multa, la bolletta e forse qualcosa in più. Per un momento sentì un sollievo, ma subito dopo venne il senso di vuoto, di nausea. Sapeva che quello era solo l’inizio, che ormai aveva firmato un contratto non scritto con una realtà che non perdonava.

Tornò a casa che era quasi mezzogiorno. Teresa lo accolse con un sorriso stanco, chiedendogli dove fosse stato e perché non fosse a lavoro. Michele mentì, come avrebbe fatto molte altre volte nei giorni a venire. E così iniziò la sua discesa in un mondo che non gli apparteneva, ma che presto sarebbe diventato tutto ciò che conosceva.

Napoli intorno a lui restava immutata, selvaggia e senza pietà. Ogni vicolo, ogni angolo nascosto, sembrava sussurrare le storie di chi, come lui, aveva ceduto alla tentazione di sopravvivere, barattando la propria anima per un po’ di respiro in più. I colori vivi della città non erano altro che una maschera per coprire il grigiore delle vite sprecate, dei sogni spezzati.

Col tempo, Michele smise di provare rimorso. La necessità era diventata la sua nuova morale, puntuale come la morte. Imparò a non farsi più domande a risparmiare non solo sui sogni, ma anche sui sentimenti, sulle paure, su tutto ciò che lo rendeva umano.

E così, giorno dopo giorno, Michele non visse più, ma sopravvisse, lasciando che la città lo consumasse a poco a poco, fino a quando non ci fu più niente di lui che non fosse polvere, la stessa polvere che soffocava le strade dimenticate della sua Napoli.

6 commenti su “Michele e la città”

  1. Raffaele Catania

    Il cedimento morale è descritto con una delicatezza e una comprensione che lo rendono dolorosamente realistico. Un racconto potente e ben scritto.

  2. Il racconto è scritto bene ma credo che parta da un presupposto sbagliato: giustificare chi sceglie di delinquere. Credo che non basti una bolletta o una multa salata per far virare il timone della propria vita. Napoli sta risorgendo e credo che non abbia bisogno di pessimismo o piagnoneria, ma soltanto di una sana voglia di fare, di rimboccarsi le maniche, di andare avanti. Signor Nacarlo non diamo alibi a chi non ha semplicemente voglia di lavorare… Un saluto

    1. Antonio Nacarlo

      Grazie per aver letto e commentato il racconto, apprezzo molto il suo punto di vista. Ci tengo però a chiarire che il mio intento non è assolutamente quello di giustificare chi sceglie di delinquere. Al contrario, credo fermamente che ognuno sia responsabile delle proprie azioni. Tuttavia, non possiamo ignorare il fatto che la povertà e le difficoltà economiche siano in aumento, come riportano anche le statistiche dell’ONU. Questo non è un alibi, ma un dato di realtà che incide sulla vita di molte persone. Napoli, come giustamente dice, sta risorgendo e lo fa grazie a chi ha il coraggio di rimboccarsi le maniche. La mia speranza è che tutti possano avere le opportunità e il sostegno necessari per scegliere sempre la strada giusta. Un saluto.

  3. Elio Mottola

    Eccellente analisi di un percorso che vorremmo ignorare ma che dolorosamente esiste, compresa la fase finale di arida rassegnazione. Bravo Antonio.

    1. Antonio Nacarlo

      Grazie Mister, senza voler giustificare il male e la delinquenza, bisogna essere consci che questa è una delle tante anime di questa città.

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