L’editto di Pechino

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Disegno di A. Nacarlo

Dopo l’infelice scelta di non votare a favore della Von Der Leyen la Meloni ha intensificato il filone vittimista della sua propaganda. Scopo di questa escalation è mantenere il consenso interno, nella consapevolezza che l’isolamento in cui ha collocato l’Italia non ci porterà nulla di buono. La prima risposta al suo diniego non si è fatta attendere: è arrivato il famoso Report sullo Stato di diritto curato dalla Commissione Europea, tenuto da tempo cautelarmente nel cassetto in attesa che la Meloni appoggiasse la nomina di Ursula tante volte garbatamente al suo fianco in alcune delle sue iniziative oltreconfine. Il Report, evidentemente non ridimensionato dopo il voltafaccia della Meloni, esprime forti dubbi sul premierato, sulla riforma della giustizia, sul divieto di pubblicare atti giudiziari e condanna inoltre i mancati provvedimenti a favore della libertà di stampa. Ma il Report stigmatizza anche l’aumento delle minacce e delle aggressioni ai giornalisti e la crescita delle “intimidazioni legali” da parte dei politici (querele per diffamazione contro giornali o singoli giornalisti) esprimendo qualche preoccupazione anche per le prossime nomine Rai. Insomma un rapporto allarmato e severo al quale però la Meloni più che dare una risposta ufficiale ha preferito stilare una lettera diretta alla Von Der Leyen nella quale condanna duramente l’uso distorto che del Report avrebbero fatto i suoi oppositori e le fake news che, a suo dire, circolano sul tema della libertà d’informazione.

Il quotidiano la Repubblica del 1° agosto, in un articolo a firma di Emanuele Lauria, ci spiega da dove nasce questa lettera che mette di fatto in discussione l’attendibilità del Report della Commissione Europea. L’occasione è offerta dalla quasi contemporanea diffusione di un altro rapporto, il Media Freedom Rapid Response, scritto dalla federazione dei giornalisti europei, anch’esso critico sullo stato dell’informazione in Italia. In questo, e solo in questo, sono citati fra le fonti analisti di quotidiani che la Meloni colloca semplicisticamente all’opposizione. La quasi contemporaneità dei due rapporti ha permesso di incrociarne strumentalmente i contenuti. Così Emanuele Lauria conclude il suo illuminante articolo: «Il tentativo di depistaggio mediatico va in atto quando in Italia è l’alba (del 31 luglio). Vanno in edicola i giornali di destra – Libero, il Giornale – che screditano il rapporto Media Freedom Rapid Response sostenendo che sia ispirato da 11 informatori non obiettivi, fra cui il Domani, il Fatto Quotidiano e Repubblica. Alla stessa ora, a Pechino, la Meloni risponde alla domanda di un cronista sul dossier precedente e distinto, quello sullo Stato di diritto prodotto dalla Commissione Europea, mettendo in mezzo però gli stessi informatori secondo lei non obiettivi: gli «accenti critici» su premierato e libertà di stampa, afferma la presidente del Consiglio, non sono farina del sacco dell’Ue, ma solo citazioni «di alcuni portatori di interesse, diciamo stakeholder: il Domani, il Fatto Quotidiano, Repubblica. Non c’entra nulla, visto che il dossier della Commissione Europea di cui le viene chiesto ha una serie di fonti diverse, istituzionali, fra cui ci sono addirittura Palazzo Chigi e diversi ministeri. Ma tutto concorre allo scopo della premier, quello di accusare le testate non gradite. Con un’opera che resta, allo stato, l’unico vero esercizio di disinformazione».

Questa macchinazione denota la pochezza della visione politica e diplomatica della Meloni e dei suoi suggeritori perché è impensabile che le istituzioni comunitarie non vi scorgano tutta l’ingenua supponenza: chi potrebbe mai credere che la GEDI, proprietaria di Repubblica, l’ottantanovenne ing. De Benedetti, editore di Domani e Marco Travaglio con la proprietà diffusa del “Fatto” vogliano e soprattutto possano interferire nella redazione dei report della Comunità Europea?

Non passa un giorno e la nostra Premier mette su un altro “autogol” cimentandosi in un nuovo esercizio di propaganda spicciola: di ritorno dalla Cina incontra a Parigi d’urgenza il presidente del Comitato Olimpico Internazionale al quale chiede spiegazioni circa l’indebita, a suo avviso, ammissione alle gare di boxe femminile dell’algerina Imane Khelif; il tutto solo dopo aver manifestato di persona la propria solidarietà alla pugile italiana Angela Carini che si era ritirata dal ring dopo appena 40 secondi dall’inizio del match accusando dolori al naso a seguito di un pugno sferrato dall’avversaria. La polemica sollevata dalla Meloni, anche se innescata dal solito Salvini, coinvolge immediatamente, sulla medesima linea di condanna, Trump e Orban fino a quando non si accerta che la Khelif è nata donna e tale è tuttora. Anche qui sarebbe bastato informarsi prima per evitare una figuraccia in campo internazionale. Ma in Italia sarà una figuraccia? La propaganda “femminista” della Premier qualche effetto qui da noi lo avrà. Per il momento si sa che la Carini sarà ricevuta al Senato dal Presidente La Russa.

Ma non finisce qui perché la foga vittimistica della Meloni prosegue senza soste e senza limiti, come avremo modo di vedere.

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