Chi arriva negli Stati Uniti dall’oceano Atlantico e sbarca a New York, non può fare a meno di rimanere suggestionato dalla famosissima Statua della Libertà, che sorge allo sbocco del fiume Hudson ed è collocata su un’isoletta chiamata Liberty Island. Realizzata alla fine del XIX secolo, fu un regalo che la Francia volle fare agli amici americani, riconoscendo in tal modo agli Stati Uniti d’essere la nazione che più di ogni altra era degna di rappresentare gli ideali di libertà e di uguaglianza dopo secoli di tirannie, di coercizione, di disuguaglianze che avevano caratterizzato la vita del Vecchio continente. L’America era, nelle intenzioni dei donatori, la nazione simbolo delle aspirazioni di tutti gli esseri umani che, nel mondo, anelavano alla libertà. Naturalmente alla libertà degli uomini e delle donne dalla pelle bianca, perché fino a soli vent’anni prima della realizzazione di quell’iconico monumento, quando Lincoln la abolì, la schiavitù delle popolazioni di colore era stata una delle abominazioni più disumane nella storia di quel giovane paese che, inoltre, aveva fatto dello sterminio dei nativi americani, i veri possessori della terra che essi calpestavano e ai quali l’avevano sottratta, uno dei peggiori atti di genocidio della storia. E non dimentichiamo che fu proprio per mantenere in vigore la schiavitù che l’America combatté la sua guerra più sanguinosa, la guerra tra fratelli, la guerra di secessione, scoppiata per la “nobile causa” di mantenere in vigore la schiavitù negli stati del sud.
A proposito di libertà, non si trascuri nemmeno il fatto che in America, nella prima metà del secolo XX, non si era più liberi di bere una birra o qualcos’altro (proibizionismo) e, grazie all’infaticabile attività del senatore Joseph McCarthy, non si era più nemmeno liberi di manifestare il proprio pensiero politico sotto nessuna forma, pena la proscrizione, a meno che non fosse quello del senatore. Divampava la fobia del comunismo, che ancora risentiva della recente fine della seconda guerra mondiale, e qualunque cosa odorasse – anche lontanamente – di quella dottrina, suscitava un subitaneo allarme. Così sotto la direttiva di McCarthy, furono predisposte le “liste di proscrizione”. Uno degli elementi principali del maccartismo fu il controllo di sicurezza interno applicato sugli impiegati del governo federale, eseguito dall’FBI di J. Edgar Hoover. Questo dettagliato programma investigava tutti gli impiegati su eventuali connessioni comuniste, impiegando testimonianze fornite da fonti anonime che i soggetti all’investigazione non erano in grado di identificare o con cui non potevano confrontarsi.
Le audizioni condotte dal senatore Joseph McCarthy diedero alla paura rossa (Red Scare) il nome che è entrato nell’uso comune, ma la “paura rossa” precedette la vertiginosa ascesa di McCarthy nel 1950 e continuò dopo che venne screditato, dalla censura del Senato, nel dicembre 1954, a seguito della sua disastrosa investigazione sull’esercito statunitense, su cui la commissione parlamentare d’inchiesta iniziò le udienze il 22 aprile di quell’anno. Il nome di McCarthy venne associato al fenomeno principalmente a causa del suo predominio nei mass-media; la sua natura franca e imprevedibile lo rese la figura rappresentativa ideale dell’anticomunismo, anche se probabilmente non fu il più importante tra i suoi esponenti. Le “liste di proscrizione” riguardavano i giornali che non si allineavano all’anticomunismo paranoico di McCarthy, e una delle sue vittime più illustri fu il prestigioso New York Times, che valorosamente non cedette mai ai diktat del senatore.
Moltissimi furono i nomi illustri che caddero sotto la scure del maccartismo (come fu poi chiamato il movimento): attori famosi, scrittori di prestigio, scienziati di altissima levatura, come Albert Einstein e Linus Pauling, e questo causò un profondo malumore negli ambienti di Hollywood, che con la produzione di film sull’argomento, ne denunciarono la illiberalità e le violazioni della costituzione americana. Non per nulla Eleanor Roosevelt, moglie del grande presidente Franklin Delano Roosevelt, estremamente attiva nel movimento americano dei diritti civili e i diritti afroamericani, dichiarò che il maccartismo: «È stata una vera e propria ondata di fascismo, la più violenta e dannosa che questo Paese abbia mai avuto».
Passiamo adesso al nostro Paese, È stato di recente pubblicato il Rapporto 2024 curato, come ogni anno, da Reporter senza frontiere; lo studio punta il dito sulla «legge bavaglio» sostenuta dalla coalizione di governo che vieta la pubblicazione di un ordine di custodia cautelare fino alla fine dell’udienza preliminare. Ma, cosa più grave è che, secondo il Rapporto, l’Italia in quanto a libertà di stampa è retrocessa al 46º posto, dal 41º che occupava prima. «L’Italia di Giorgia Meloni (46esimo) – dove un membro della coalizione parlamentare al potere sta cercando di acquisire la seconda più grande agenzia di stampa (AGI) – è caduta di cinque posizioni quest’anno». Il Report aggiunge anche: «La libertà di stampa in tutto il mondo è minacciata dalle stesse persone che dovrebbero essere i suoi garanti – le autorità politiche. Ciò è chiaro dall’ultimo World Press Freedom Index annuale prodotto da Reporters Without Borders (RSF). Questa constatazione si basa sul fatto che, dei cinque indicatori utilizzati per compilare la classifica, è l’indicatore politico che è sceso di più, registrando una caduta media globale di 7,6 punti. Come mai accade questo? Perché, come dicono gli autori dell’inchiesta: “Un numero crescente di governi e autorità politiche non sta svolgendo il loro ruolo di garanti del miglior ambiente possibile per il giornalismo e per il diritto del pubblico a notizie e informazioni affidabili, indipendenti e diverse. RSF vede un preoccupante declino del sostegno e del rispetto per l’autonomia dei media e un aumento della pressione da parte dello Stato o di altri attori politici”.»
Un posto di rilievo fra le «autorità politiche che non svolgono il loro ruolo di garanti della libertà di stampa» lo occupa la Presidente de noantri, la bionda fanciulla della Garbatella che, guarda caso, ha anche la tessera dell’ordine dei giornalisti, necessaria per lavorare a suo tempo, guarda altro caso, nel Secolo d’Italia, il giornale missino.
Ultimamente la signora Meloni non è in grande spolvero e sta accumulando magre figure su magre figure principalmente a livello europeo, dove è stata marginalizzata dopo il rifiuto italiano (suo) di far rieleggere Ursula Von der Leyen alla presidenza della Commissione Europea, per non scontentare i sovranisti di casa nostra, la signora Le Pen in Francia e il Signor Orbàn in Ungheria. Ecco quindi che, secondo il suo solito, attribuisce i suoi rovesci ad altri e mai a sé stessa. A chi, questa volta? Ovviamente ai giornali che non la pensano come lei, quindi, fatti salvi La Verità, Libero, Il Giornale e altri fogli di destra, la nuova lista di proscrizione di Meloni colloca al primo posto dei giornali “non allineati” la Repubblica, seguita dal Fatto Quotidiano di Travaglio e da Domani, di Carlo De Benedetti, che la signora accusa d’essere “portatori d’interessi” o stakeholder; accuse che ricordano tanto il famoso “editto bulgaro” di Berlusconi quando, il 18 aprile 2002, durante una conferenza stampa a Sofia in Bulgaria, il Premier parlò dell’uso secondo lui «criminoso» della televisione pubblica da parte dei giornalisti Enzo Biagi e Michele Santoro, e del comico Daniele Luttazzi. In merito a quest’ultima iniziativa liberticida del nostro Presidente del consiglio, uno dei giornalisti internazionali di grande prestigio, Bill Emmott, direttore dell’Economist inglese per tredici anni, ha detto: «Non è mai un buon segno quando il governo di un paese occidentale e democratico attacca giornali e giornalisti … Non significa che in Italia non ci sia più un’informazione libera, ma i margini si sono ristretti e la tendenza imboccata dall’attuale governo di destra è preoccupante. La reazione di Meloni è rivelatrice della sua stessa debolezza, e l’accusa da lei fatta a quei giornali di avere strumentalizzato ed esagerato il Rapporto dell’UE critico sullo Stato di diritto e della libertà di stampa, è un’accusa ridicola. Questi, lanciati da Meloni sono segnali allarmanti. I media rappresentano il quarto, e con la TV il quinto potere. Contribuiscono alla salvaguardia della democrazia. Attaccarli di continuo e, ancora peggio, denunciarli per vie legali con l’obiettivo di zittirli, è un atteggiamento pericoloso».
Il problema non è solo italiano. In America c’è un altro grande fascista, il candidato alla presidenza Donald Trump, che si lamenta furiosamente del New York Times, come ai tempi di McCarthy, ma il giornale ha le spalle larghe per difendersi. Ma nel caso italiano l’intimidazione dei giornali è più allarmante quando si tratta di piccoli giornali in difficoltà finanziarie. Meloni li attacca perché crede che siano un obiettivo debole, ma così facendo è lei che rivela la propria fragilità. Meloni, che come abbiamo visto ha anche lei la tessera dell’ordine dei giornalisti, non è mai tenera con quelli che non si limitano a eseguire ordini o a reggere microfoni, e in questo è l’alter ego di un altro “grande” giornalista, con esperienza alla Padania, ovvero Matteo Salvini, nemico giurato del giornalismo indipendente.
Suggeriamo, quindi, a Meloni di guardare indietro nel tempo ai tanti tentativi falliti di imbavagliare la stampa, e all’ombra che ciò proietta sul futuro della nostra fragile democrazia, mai liberatasi del tutto dai fantasmi del passato, fantasmi che ancor oggi condizionano il clima politico nel nostro Paese, dove “squadracce” di giovani esagitati di estrema destra malmenano i giornalisti, devastano locali della CGIL. Misfatti resi possibili, anzi incoraggiati, dal clima che oggi aleggia sul nostro Paese, un clima nel quale tutti i vecchi cimeli del fascismo sono stati rispolverati ed esibiti con fierezza e orgoglio, anche da chi ricopre importanti incarichi istituzionali come il Presidente del Senato.
C’è da essere preoccupati? Alla domanda Bill Emmott risponde: «No, perché in Italia esistono ancora voci libere e indipendenti. Ma i margini si sono ristretti e questo è preoccupante, non solo nei giornali ma soprattutto nella RAI, che costituisce la principale fonte di informazione per la maggioranza della popolazione».
Il suggerimento che ci sentiamo di dare è tratto dall’antico grido che lanciavano le sentinelle d’altri tempi in vista di un allarme o di un pericolo con il richiamo alla vigilanza: “Allerta sto!”