Un “palestinese” di altri tempi

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Antonio Nacarlo, Cristo morto da Giuseppe Sanmartino

Di recente abbiamo parlato della figura storica di Gesù, a fronte di quella “teologica”, e abbiamo affermato che la seconda ha oscurato del tutto la prima, sovrapponendole secoli di disquisizioni teologiche che hanno finito per deformare irrimediabilmente il Gesù reale “l’uomo” Gesù.

Il Tempo è un gran signore. Ed è proprio il suo trascorrere che porta alla luce la realtà delle cose; nulla può sfuggire al trascorrere del tempo. Una delle tante vittime illustri di questa nemesi è proprio Gesù Cristo. Niente di tutto ciò che egli insegnò e profetizzò, e che gli costò una morte ignominiosa, si è realizzato. E duemila anni sono un tempo sufficiente a dimostrarlo “oltre ogni ragionevole dubbio”, come recita la formula giuridica usata per stabilire la certezza di un’accusa. Per capire chi sia realmente stato Gesù, è necessario andare indietro nel tempo e capire qual era il suo mondo, e quale posto lui riteneva di ricoprirvi.

La Palestina che Gesù conobbe e nella quale visse la sua breve e intensa esistenza, attraversava un periodo molto difficile. I romani, che governavano su vaste regioni del mondo con notevole successo, non davano certo il meglio di sé nei rapporti con gli ebrei di Palestina, a causa delle incomprensioni e dei fraintendimenti delle usanze religiose e culturali reciproche. Questa situazione di intolleranza condusse infine a quelle che lo storico ebreo Giuseppe Flavio definì le “guerre giudaiche”, due sollevazioni sanguinose rispettivamente nel 66-73 e 132-135 d.C. Al tempo di Gesù questi conflitti non erano ancora accaduti, ma c’erano tensioni e agitazioni aggravate da un serio malcontento economico dovuto all’ingente tassazione che la povertà naturale del paese rendeva quasi insopportabile. Era questa l’atmosfera prevalente al tempo in cui nacque il Nazareno, e fu proprio a causa di questo clima oppressivo che sorsero molti predicatori itineranti ebrei che diedero voce ai desideri e alle aspirazioni popolari d’Israele. Fra di essi uno è il più noto; si chiamava Giovanni, chiamato Battista perché battezzava in acqua chiunque ascoltasse il suo messaggio, un messaggio difficile da capire e che riguardava il Regno di Dio. Una delle persone che lo ascoltò, accettò il suo messaggio e lo condivise, fu proprio Gesù che, per così dire, prese il suo posto quando Erode Antipa fece arrestare e giustiziare Giovanni, accusato di sovversione.

Su Gesù, lo studioso Riccardo Calimani pubblicò un saggio dal titolo Gesù ebreo (1990) che così descrive l’uomo di Nazareth: “Gesù sentiva profondamente la propria ebraicità. La sua osservanza della Legge era così profonda e partecipe da fare della sua pietà religiosa una condizione necessaria per cercare di capire chi egli sia stato veramente. Molte delle sue idee e parole, molte sue azioni si comprendono solo se le si vede come manifestazioni del suo ebraismo”. Più tardi anche Harold Bloom si è cimentato sull’argomento nel suo Gesù e Yahvè (Rizzoli, 2005), dove scrive: “I giudei hanno un rapporto difficile con Cristo, ma ciò non vuol dire che lo abbiano necessariamente anche con Gesù, che ha ben poca responsabilità di quanto il cristianesimo ha compiuto in suo nome”.

Quanto abbiamo detto è di estrema importanza per capire Gesù e il suo messaggio, che rimase sempre negli stretti ambiti dell’ebraismo tradizionale; messaggio dal quale dobbiamo espungere tutto ciò che negli anni seguenti alla sua morte fu aggiunto al personaggio per accreditarne sempre di più l’origine soprannaturale e che fosse Figlio di Dio ancora prima della sua nascita terrena. A cominciare dalla colomba che apparve sul suo capo al battessimo, alla sua nascita accompagnata dal coro degli angeli, alla visita dei re Magi dall’oriente, da una mater semper virgo, ai miracoli di guarigione e perfino la sua capacità di ridestare i morti, e quasi tutto quello di non verificabile nell’esperienza umana descritto nei Vangeli e, successivamente, nelle lettere paoline. Gesù era ebreo in tutto ciò che credeva, contenuto nella Legge e, come i farisei, credeva alla resurrezione dei corpi, e non come un greco solo all’immortalità dell’anima. È veramente pertinente il commento che ne fa il testo di Augias-Pesce: “Fino a quanto non si inseriscono le parole e le azioni di Gesù all’interno del giudaismo, è impossibile capire chi egli sia realmente stato. Se si vuole davvero conoscerlo, bisogna togliere gli occhiali cristiani e guardarlo con occhi ebraici”. Questo ci aiuta a porre nella giusta luce un’espressione di Gesù in Matteo 10:5, 6: “Non andate dai pagani, né entrate in una città di Samaritani. Rivolgetevi piuttosto alle pecore disperse della casa d’Israele”.

Parole confermate in Matteo 15:24: “Non sono stato inviato che alle pecore disperse della casa d’Israele”, mandato che poi sarà completamente capovolto da Paolo che andò a predicare al mondo pagano, tanto è vero che fu chiamato “l’apostolo dei Gentili”. Queste istruzioni, date da Gesù ai Dodici, rispondono alla domanda circa a chi egli intendeva rivolgersi con la sua predicazione; le parole di Matteo rispondono sorprendentemente alla domanda: se stiamo a quelle parole, dobbiamo dedurre che Gesù volesse riservare la sua predicazione, e dunque l’azione morale che andava svolgendo, solo al suo popolo, cioè agli ebrei. È questa la chiave indispensabile per schiudere alla comprensione del vero Gesù, del suo messaggio, dei suoi destinatari e di ciò in cui egli credeva. In piena consonanza con la sua educazione rabbinica e la profonda convinzione che ciò che era stato promesso si sarebbe immancabilmente avverato, Gesù divenne, e fu realmente, quello che potremmo appropriatamente definire un profeta apocalittico, e fu proprio così che lo descrisse Albert Schweitzer nella sua magistrale opera Storia della ricerca sulla vita di Gesù (Paideia, 1986), che lo definì come “un profeta giudeo apocalittico del primo secolo”. Ciò vuol dire in breve che Gesù attendeva con la massima certezza che la storia del mondo, come noi la conosciamo (o meglio, come lui la conosceva), stava per giungere ad una fine improvvisa, che Dio era sul punto di intervenire nelle vicende umane, avrebbe rovesciato le forze del male in un atto di giudizio cosmico, distruggendo un’enorme massa di umanità, abolendo nel contempo ogni forma di istituzioni umane politiche e religiose. Tutto questo sarebbe stato il preludio dell’arrivo di un nuovo ordine sulla Terra rappresentato dal Regno di Dio. Gesù si aspettava inoltre che questa fine cataclismica della storia avrebbe avuto luogo nell’ambito della sua stessa generazione, o al massimo durante la vita dei suoi discepoli.

Continuando a citare l’opera di Schweitzer, apprendiamo che Gesù “era un uomo del passato e per comprendere chi egli fosse veramente dobbiamo collocarlo nel suo peculiare contesto, non pretendendo che egli si conformi al nostro”. Schweitzer non pensava che il Gesù storico considerasse i problemi o le prospettive del ventesimo secolo. In realtà Gesù era un apocalittico del primo secolo, che non si sarebbe mai aspettato che potesse esservene un ventesimo. Egli si aspettava che la fine del mondo giungesse nel corso della sua vita, addirittura attendeva la sua fine prima che trascorresse l’anno in cui predicava. Quando ciò non accadde – sempre secondo Schweitzer – Gesù giunse alla conclusione che egli avrebbe dovuto soffrire affinché Dio portasse il suo Regno qui sulla terra. E così egli si avviò al martirio pienamente convinto che Dio sarebbe intervenuto nella storia con un cambiamento epocale. Quando nel corso dell’ultima cena egli disse ai suoi discepoli che non avrebbe bevuto nuovamente del vino fino al giorno in cui lo avrebbe bevuto nuovo nel Regno del Padre suo, egli non stava pensando che ciò avrebbe avuto luogo duemila anni dopo da quella sera, ma nei prossimi uno o due giorni. Ne deriva che Gesù si sbagliava. Egli morì sulla croce avendo frainteso il suo ruolo nel piano di Dio, tanto è vero che gli gridò ad alta voce chiedendogli perché lo avesse abbandonato, senza ricevere alcuna risposta. Questa ricostruzione di Schweitzer può non essere condivisa da tutti, ma è una delle più accreditate fra gli studiosi della materia, compreso Bart Ehrman, che vi ha dedicato un libro dal titolo, Gesù, profeta apocalittico del primo millennio (Oxford University Press, 1999).

Do per scontato che si sia facilmente compresa l’enorme differenza fra il Gesù della Storia e il Gesù della fede. La figura del primo prescinde dall’esistenza di un Dio, la figura del secondo la rende indispensabile. Il Gesù della storia non ha bisogno dell’esistenza di Dio per fare ciò che fece e per dire ciò che disse; e ciò che fece derivava dalla sua assoluta certezza che vi fosse un Dio Padre che regolava il corso della storia e quello della sua stessa vita, e dal quale egli attendeva con sicura aspettazione la realizzazione delle profezie relative all’avvento del Regno terreno, di cui egli era l’annunciatore.

Il secondo Gesù non può prescindere da Dio, perché tutto il suo percorso terreno, com’è narrato nei primi scritti cristiani, è costellato di prodigi, miracoli, fenomeni che sovvertono l’ordine naturale delle cose, tipici dell’intervento di un dio, come quello che alla richiesta di Giosuè fece fermare il sole per permettergli di sconfiggere i suoi nemici (Giosuè 10:12,13). Sappiamo che nessuno dei Vangeli fu scritto dai personaggi al cui nome sono intestati; sappiamo anche che le tradizioni orali su Gesù si trasformarono in opere letterarie solo decenni dopo il verificarsi dei fatti che per tutto quel tempo furono trasmessi oralmente. Sappiamo che il Nuovo Testamento è infarcito di contraddizioni, di abbagli storici, di fiabe, leggende, miti, tutti tendenti a presentare un Signore Gesù divinizzato, in netto contrasto con il “vero” Gesù della Storia. Chi fosse appassionato all’argomento ha soltanto l’imbarazzo della scelta fra le migliaia di opere che trattano con dovizia di particolari l’argomento.

Una cosa, però, va detta, ed è importante: se avessimo conosciuto soltanto il Gesù storico, oggi non ci sarebbe nessuna religione cristiana. Per farla nascere e prosperare era necessario che si ammantasse la sua figura di tutti i tratti caratteristici che avevano prefigurato la persona del Messia negli scritti della Legge e dei Profeti. Bisognava deificarlo, farlo divenire operatore di miracoli, farlo risorgere dai morti perché le masse riponessero fede nelle sue parole – anch’esse spesso inventate e attribuitegli dai suoi “biografi”.

Come abbiamo più volte detto e ripetuto, uno degli aspetti di maggiore importanza nella nascente chiesa cristiana era quello fondamentale dell’imminenza della Parusìa, cioè del ritorno di Cristo. Egli ne aveva fatto il nucleo centrale della sua predicazione, garantendo che chi lo avrebbe ascoltato non sarebbe mai morto (Giovanni 11:26). Premettendo che quanto dirò adesso ha lo scopo esclusivo di dimostrare un assioma, ma di non fare assolutamente nessun parallelo fra quel tempo e il nostro tempo, le spiegazioni che allora si cercò di dare per giustificare l’inspiegabile ritardo o mancato avveramento delle promesse di Gesù, ci fa venire in mente la miriade di sette “avventiste”, cioè che predicano l’avvento o ritorno di Gesù, quasi tutte di origine americana. I Testimoni di Geova, per esempio, l’aspettano sin dai tempi del loro fondatore, C.T. Russell, che aveva indicato la data del 1914, come assolutamente certa e indifferibile. Sono trascorsi 110 anni da quel tempo e nulla – com’era prevedibile – è accaduto, sicché i discendenti del fondatore si sono affidati a capriole teologiche, salti mortali doppi e tripli e argomentazioni che non stanno né in cielo né in terra per tenere avvinti i loro fedeli a quella fola, stabilendo ogni volta nuove date per l’evento, sempre miseramente fallite! Quasi lo stesso accadde nel primo secolo. Paolo, rendendosi conto che quel ritardo avrebbe potuto essere esiziale per il nascente movimento da lui fondato, cercò di rimediare, per esempio, scrivendo nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi: “Vi preghiamo, fratelli, quanto alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo e al nostro radunarci con lui, di non lasciarvi facilmente agitare nel vostro animo e spaventare da oracoli o discorsi ispirati, o da qualche lettera fatta passare per nostra, quasi che il giorno del Signore sia imminente”, e quindi passa a illustrare quali e quante cose avrebbero dovuto verificarsi prima della Parusìa, spostandone così l’adempimento in un futuro indefinito (2 Tess. 2:1-12). Lo stesso tentativo fece anche l’autore della Seconda lettera di Pietro nella quale cerca di rassicurare e consolare i seguaci del suo tempo affermando che: “Un giorno solo davanti al Signore è come mille anni e mille anni come un giorno solo” (2 Pietro 3:1-13) Un sofisma piuttosto scadente!

Ovviamente, quello fra le sette di oggi e i cristiani del primo secolo è un paragone del tutto improponibile, utile soltanto a confermare la necessità della natura umana di essere rassicurata e consolata dalla speranza di un cambiamento. Il primo che, morendo, si rese conto di aver fallito fu proprio Gesù. Quel Gesù che i suoi successivi seguaci – Paolo in testa – mistificarono, modificarono, stravolsero per presentare al mondo una persona che non era mai esistita se non nel loro immaginario e nella loro “fede”. Ma questo fa parte dell’essenza della natura umana e non si può farci niente.

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