Il capo e la folla

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Che differenza c’è, o meglio, cos’è che unisce i terrapiattisti, i Testimoni di Geova, i creazionisti, i negazionisti climatici, i no vax, Jim Jones, David Koresh e l’«inner circle» di Donald Trump, probabile futuro presidente degli Stati Uniti d’America? Con i dovuti distinguo e tenendo conto che si tratta di fenomeni in contesti profondamente diversi, ciò che li unisce è la ferma convinzione che è Dio che guida i loro passi, e che il “capo” o i capi sono stati scelti direttamente dall’Alto per compiere la loro missione. Questo, molto spesso, comporta il negare delle verità oggettive, le verità scientifiche, ciò che è evidente a tutti tranne che a loro, e che spesso ha conseguenze fatali, come le tragedie di Waco e di Jonestown. In ultima analisi, ciò che li unisce è il fanatismo. Secondo il noto Dizionario Treccani, questa ne è la sua descrizione: «Espressione esasperata del sentimento religioso che porta ad eccessi e alla più rigida intolleranza nei confronti di chi sostenga idee diverse. Per estensione, ogni manifestazione di incondizionata e quasi maniaca adesione a un’ideologia politica, a una dottrina filosofica, a un movimento letterario o artistico, ecc.»

È sotto gli occhi di tutti che, con la personalizzazione della politica, il capo che vince le elezioni si considera investito di una missione salvifica, pertanto concentra nella propria persona l’azione del governo, proclamando che la sua autorità deriva unicamente dal popolo che lo ha eletto. A conferma di quanto sopra, ecco come si è espresso Ray Myers, Co-presidente della Lone Star coalition, delegato del Texas immediatamente dopo l’attentato a Trump: «Il mio cuore è crollato a terra. Perché se cade lui, l’America e il mondo intero cadono … Stiamo perdendo il paese e solo Trump può impedirlo. Combatte per tutti noi, ci serve un uomo forte … Dobbiamo sigillare il confine e deportare gli illegali, perché rubano l’America. Abbiamo una cultura e una religione da difendere. Non riguarda solo noi, ma anche voi italiani perché gli immigrati assalgono il mondo occidentale. Sono un nazionalista americano. America First è il mio credo e abbiamo il dovere di occuparci prima del nostro paese … Il programma (di governo) deve contenere il bando federale nazionale. Abortire significa andare contro Dio, e quando vai contro Dio sei perduto».

Dire che da un uomo dipende la sorte dell’America e del mondo intero non sembra un pensiero sobrio, e non può rappresentare un programma politico, perché queste erano (e sono) le caratteristiche dei dittatori fanatici, che vedevano in sé stessi «l’uomo del destino» e, per limitarci a casa nostra, «l’Unto del Signore». Le idee di Myers sono pienamente condivise da Dwayne Collins, altro sostenitore repubblicano e texano di Trump: «L’essere umano prende coscienza di Cristo nel momento del concepimento, perciò abortire significa togliere una vita. Io per questo credo sono anche stato arrestato, quando con l’Operation Rescue bloccammo l’ingresso in una clinica abortista di Houston. A cosa è servito? Forse una madre che quel giorno non ha potuto uccidere il suo bambino ci ha ripensato e abbiamo salvato un figlio di Dio». E per quanto riguarda l’immigrazione nel suo paese egli è perentorio: «Partecipo alle pattuglie notturne per scovare gli illegali lungo la frontiera e arrestarli, e va fatta la deportazione di massa». Secondo Collins, «Il cambiamento climatico non esiste, o quanto meno non è l’uomo a provocarlo; perciò dobbiamo uscire dall’accordo di Parigi e puntare sul petrolio, che ha un impatto sull’ambiente assai inferiore alla presunta energia verde». Una sostenitrice di Trump, Susan Renau, sostiene con forza: «L’America era un faro di luce nel mondo, con Trump presidente, e tornerà ad esserlo quando vincerà».

Questa è l’aria che si respira oggi in America, l’America di Trump, che con lui conta di tornare alla Casa Bianca e guidare così il mondo libero. Un mondo in cui non c’è allarme per il clima, in cui si potrà continuare a inquinare con i combustibili fossili, in cui alle donne sarà proibita la libera scelta se mettere al mondo o meno un bambino. Un mondo in cui la religione ha preso pian piano nuovamente il sopravvento, in contrasto con il Primo Emendamento della Costituzione USA, che proibisce espressamente di favorire l’esercizio di una religione a scapito di un’altra. Trump si proclama evangelico e la sua retorica ricalca spesso le visioni più radicali e cospirative degli evangelici, che si definiscono sotto attacco dalle forze del “male”. In un recente comizio Trump ha accusato l’amministrazione Biden, ma anche «i comunisti, i marxisti e i fascisti», di perseguitare i cattolici, aggiungendo che «gli evangelici saranno i prossimi». Quindi ha schierato dalla sua parte anche le moltitudini bigotte e oscurantiste che costituiscono il nucleo forte degli Stati Uniti. Il concetto di un’America sotto attacco da «forze interne alla nazione che la vogliono allontanare dai propri fondamenti biblici» non è nuovo: fu promosso negli anni Settanta e Ottanta dalla Moral Majority, un movimento della destra cristiana che contribuì a spingere vari movimenti protestanti verso posizioni sempre più vicine ai Repubblicani. Trump sta riproponendo la stessa idea, sfruttando anche l’opera e il sostegno di predicatori online, oggi forse più influenti dei pastori evangelici tradizionali. Si può quindi dire che oggi essere evangelici negli Stati Uniti è più una scelta politica che religiosa.

In effetti, e non solo in America, ormai la scelta di un candidato per qualunque carica pubblica, più o meno importante, non è altro che la vendita di un prodotto. Già alcuni osservatori agli inizi degli anni Sessanta notarono come la democrazia americana stesse trasformandosi. Nelle campagne propagandistiche, sempre più martellanti durante la competizione per la Casa Bianca, prevalevano infatti metodi di vendita pubblicitaria, tanto da dare l’impressione, come scriveva il 10 luglio 1960 dagli Stati Uniti il giornalista Antonio Gambino, che «tali campagne avessero lo scopo di facilitare la “vendita” d’un candidato e non d’offrire ai cittadini i mezzi per una scelta quanto più possibile responsabile e oggettiva». Gambino concludeva la sua analisi delle tecniche pubblicitarie adoperate per scegliere e lanciare il candidato alla presidenza, con constatazioni pessimistiche sullo stato di salute della democrazia americana: «È inutile negare che il fenomeno che abbiamo descritto rappresenta una trasformazione in peggio della vita politica americana. Una democrazia è infatti, senza alcun dubbio, il governo della parte della maggioranza dei cittadini … Ma se, in base agli insegnamenti di molti filosofi, ammettiamo che la democrazia, proprio perché è il regime più perfetto, è quello che corre continuamente il rischio di trasformarsi nel più corrotto, dovremmo dire che ci sono segni che qualcosa di simile sta avvenendo in America. L’impressione che si prova talvolta è quella di assistere quasi alla nascita di una nuova demagogia, cioè, in cui non si cerca solo di soddisfare i gusti e le tendenze meno sviluppate delle masse, ma si va addirittura nelle parti più oscure del loro animo, per trasformare la scena politica secondo i desideri nascosti della maggioranza dei cittadini».

Quello che accade in America non è un fenomeno isolato, perché non v’è dubbio che tra i fenomeni più rilevanti dell’attuale malessere della democrazia vi è la tendenza alla personalizzazione della politica nella figura del capo, che stabilisce un rapporto diretto con la folla. E questo ci dovrebbe aiutare a riflettere sull’attuale tendenza a trasformare il «governo del popolo, dal popolo, per il popolo», come lo definì Abramo Lincoln nel 1863, in una «democrazia recitativa», dove la politica diventa l’arte di governo del capo, che in nome del popolo muta i cittadini in una folla apatica, beota o servile, ma alcune volte anche fanatica.

Queste amare considerazioni accompagnano la riflessione politica sin dai tempi più remoti, e trovano nell’antica Grecia e nei suoi grandi filosofi i pensieri più nobili ed elevati. Ma nei secoli del nostro Rinascimento e dell’Illuminismo europei furono molti i pensatori che, se riletti oggi, potrebbero aiutarci notevolmente a dipanare questa intricata matassa che è ormai diventata la politica. Il popolo, cioè la “massa”, come abbiamo visto, è facile preda degli imbonitori, e oggi ne abbiamo sotto gli occhi l’esempio più rappresentativo in Donald Trump, che ha saputo “vendere” benissimo il suo corpo ferito, come anni fa Berlusconi colpito da una statuetta, per farsi acclamare e “adorare” dalle masse. Uno dei nostri grandi storici e politologi del passato, Francesco Guicciardini, espresse così la sua opinione sulla moltitudine e sul popolo: «chi disse uno populo disse veramente uno animale pazzo, pieno di mille errori, di mille confusioni, sanza gusto, sanza diletto, sanza stabilità». Perché questo giudizio così severo? Egli ce lo spiega: «el popolo per la ignoranza sua non è capace di deliberare le cose importanti … è instabile e desideroso sempre di cose nuove, e però facile a essere mosso ed ingannato dagli uomini ambiziosi e sediziosi; inoltre i popoli sono ingrati». La sua conclusione finale era: «bisogna non rimettere al popolo alcuna cosa importante». E questa mancanza di affidamento sulla moltitudine non era «sanza cagione», perché essa «è assomigliata alle onde del mare, le quali secondo che ‘e venti che tirano ora di qua ora di là, sanza alcuna regola, sanza alcuna fermezza».

Nello stesso periodo, un altro grande pensatore, questa volta in Francia, Étienne de La Boétie, filosofo, scrittore e giurista, aveva constatato come facilmente il popolo si sottometta volentieri alla servitù, strisciando ai piedi del tiranno e obbedisca adulandolo e compiacendolo e, rievocando l’asservimento della plebe romana agli imperatori, che per tenerla sottomessa le elargivano panem et circenses, La Boétie constatava: «la plebaglia, che nelle città è sempre più numerosa, è naturalmente portata a diffidare di chi l’ama e a fidarsi di chi l’inganna». Un altro francese, Gustave Le Bon, antropologo, sociologo e psicologo, vissuto a cavallo dei secoli XIX e XX, nel suo famoso “Psicologia delle folle”, espresse anch’egli la sua disistima nei confronti degli elettori che così definì: «La folla è un gregge che non può fare a meno di un padrone», e considerava la maggior parte dei capi politici «retori sottili, che mirano all’interesse personale e cercano il consenso lusingando i loro bassi istinti … Le doti necessarie a un capo non sono né l’intelligenza, né la cultura, che possono anzi nuocergli perché, lasciando vedere la complessità delle cose, riducono molto “l’intensità e la violenza delle convinzioni” necessarie a suggestionare le folle. La parola è lo strumento fondamentale e indispensabile per conquistare le masse», e concludeva che nella società moderna il governo popolare «non è affatto governo del popolo», bensì «governo dei suoi capi», perché «solo apparentemente governano le moltitudini. Lungi dall’essere veramente popolari, i governi attuali rappresentano semplicemente un’oligarchia di capi».

Le cose non sono cambiate nel corso dei secoli perché gli esseri umani, a parte i progressi della tecnologia, sono rimasti sempre gli stessi. Infatti, nel 2000 il politologo inglese Colin Crouch così descrisse le elezioni moderne: «Il dibattito elettorale è uno spettacolo saldamente controllato, condotto da gruppi rivali di professionisti esperti nelle tecniche della persuasione e si esercita su un numero ristretto di questioni selezionate da questi gruppi. La massa dei cittadini svolge un ruolo passivo, acquiescente, persino apatico, limitandosi a reagire ai segnali che riceve. A parte lo spettacolo della lotta elettorale, la politica viene decisa in privato dall’interazione tra i governi eletti e le élite che rappresentano quasi esclusivamente interessi economici». Sono molte le riflessioni di autorevoli pensatori sull’argomento, e chi volesse approfondirle potrebbe leggere l’imperdibile volume del nostro Emilio Gentile, storico di chiara fama, Il capo e la folla. La genesi della democrazia recitativa (Laterza, 2016). A noi cittadini non resta che aspettare novembre, con la sua elezione del nuovo presidente USA, e vedere come nel frattempo si evolverà la vicenda europea, piena di incognite e di segnali preoccupanti. Chi vivrà vedrà!

1 commento su “Il capo e la folla”

  1. Antonio Nacarlo

    Una chiara e lucida riflessione mai disgiunta da una profonda analisi storica e filosofica. Da leggere e rileggere, complimenti vivissimi

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