Preso dall’euforia per il tracollo del Rassemblement National, che si andava profilando già dagli exit poll, avevo buttato giù, a caldo, il seguente commento: “com’è facile immaginare, non conosco personalmente Emmanuel Macron ma quando, all’indomani del successo della Le Pen alle elezioni europee, ha immediatamente anticipato le elezioni per l’Assemblea Nazionale ho istintivamente condiviso la sua pur rischiosissima decisione: attendere supinamente il naturale decorso della legislatura avrebbe comunicato ai francesi un senso di rassegnazione all’inevitabile vittoria del Rassemblement National. Macron ha invece dato una scossa alla coscienza repubblicana ed europeista di molti leader politici e delle rispettive platee elettorali. Qualunque possa essere la soluzione di una crisi di governo che si annuncia problematica, sarà sempre meglio che ritrovarsi al governo un partito antieuropeista e filoputiniano, peraltro alleato con tutti gli altri partiti europei di identico orientamento. Di Macron ho ammirato nel tempo la determinazione con cui impose ai lavoratori francesi una riforma pensionistica necessaria ma così poco gradita da indurli a manifestazioni di piazza spesso violente. Anche le sue recenti uscite estemporanee sul contributo della Francia alla difesa dell’Ucraina non meritano le condanne che hanno suscitato: difronte alle minacce quotidiane di Putin, del suo portavoce Peskov e del Ministro degli Esteri Lavrov, elevare i toni è giustificabile. A seggi ormai chiusi scopriamo dalle prime proiezioni che l’operazione di Macron ha funzionato oltre le più rosee aspettative. Il deciso ridimensionamento del partito della Le Pen avrà salutari effetti negli schieramenti europei, nel futuro politico personale di Salvini, si spera, e metterà in difficoltà la Meloni sia sul piano interno che sullo scenario europeo. Non possiamo che gioirne.”
Preso atto che il mio plauso alla scelta di Macron è stato condiviso da commentatori ben più autorevoli (Federico Rampini, ma non solo), ritengo che le elezioni francesi possano insegnarci qualcosa. Innanzitutto la validità del famoso “doppio turno alla francese” tante volte invocato dagli esponenti della sinistra più saggi e responsabili ma avversata dai leader di turno, Veltroni e Letta. La filosofia sottesa al ballottaggio nei collegi uninominali orienta, a ben riflettere, la scelta degli elettori verso il candidato meno inviso, specie se i collegi sono abbastanza piccoli da consentire un nesso di conoscenza tra le proposte dei candidati e le esigenze degli elettori, ciò che non avviene da anni in Italia per effetto delle candidature plurime e delle liste bloccate che candidano spesso personaggi del tutto ignoti all’elettorato del collegio.
Il patto di desistenza, cioè il ritiro dal ballottaggio dei candidati ritenuti deboli dai rispettivi partiti, ha consentito al secondo turno delle elezioni francesi di dirottare i voti verso uno dei candidati rimasti in sella. La libertà assoluta ma astratta di esprimere la propria preferenza è stata di fatto piegata all’esigenza concreta di votare per il candidato che ciascun elettore ha giudicato o forse semplicemente percepito come il più prossimo alle proprie aspettative o alla propria visione politica. Ma il concetto di votare per il candidato “più vicino” alla scelta iniziale dell’elettore, non più percorribile perché perdente, corrisponde, piaccia o non piaccia, proprio a quel “meno peggio” tanto vituperato dalla sinistra più intransigente.
La stessa sinistra ideologica e intransigente di cui si diceva innanzi è all’origine di un’altra non banale osservazione, confortata anche questa dal risultato delle elezioni d’Oltralpe.
Ciclicamente intellettuali ed opinionisti dell’area progressista richiamano il PD, in quanto espressione maggioritaria della sinistra, alla necessità di dotarsi di un programma di governo alternativo a quello delle destre e capace di suscitare il consenso dell’elettorato. Nobile proposito che cozza però con gli sperimentati insuccessi di progetti politici di risanamento e di lungo periodo prospettati dalla sinistra nel recente passato. In realtà la sinistra, giunta faticosamente al governo spesso in compagnia, si è ritrovata a dover rimediare ai disastri economici ereditati dai governi di destra come, citando un po’ a casaccio, gli sforamenti delle quote latte coperti dalla Lega Nord, gli scaloni pensionistici voluti da Maroni, il dissesto finanziario del governo Berlusconi che vide nel 2011 lo spread arrivare ad oltre 500 punti.
Tanto premesso, sarebbe più che giusto che il PD presentasse ai suoi potenziali elettori proposte apprezzabili. Lo sta facendo adesso la Schlein puntando su sanità, scuola, salario minimo, crisi ambientale e diritti della persona. Ma quando qualcuno le chiederà da dove attingere le risorse necessarie, la Schlein dovrà rifugiarsi nel generico ricorso alla lotta all’evasione fiscale, argomento ormai privo di appeal perché lo sbandierano tutti, compresi quelli che l’evasione la giustificano e anzi l’incoraggiano. Di imposta patrimoniale o di una riforma fiscale seriamente progressiva neppure a parlarne: il recentissimo appello della Schlein a “tassare i ricchi” già fa discutere. Auguriamoci comunque che la segretaria del PD riesca a far meglio dei suoi predecessori e a costruire intorno alle sue proposte una credibile convergenza da parte degli alleati vecchi e nuovi.
La storia recente ci insegna però anche un’altra cosa: ben più che le piattaforme politiche, le alleanze tra visioni spesso anche molto diverse nascono da un sentimento comune che tutte le sovrasta e le annulla, la paura. Paura per nemici veri, presunti o, meglio ancora, inventati che sono poi quelli più angoscianti perché frutto della fantasia più sfrenata. La Francia ne ha oggi fornito l’esempio più tangibile: la paura dell’estremismo di destra filoputiniano ha spinto a ripararsi sotto lo stesso ombrello le forze politiche più disparate dai melenchoniani agli ex gollisti.
Certo, una volta sventato il pericolo più incombente che in Francia è costituito da Marine Le Pen e dal suo fiancheggiatore Vladimir Putin, il percorso per la formazione del nuovo governo si preannuncia arduo ma, tanto per cambiare, si prospetta nuovamente il movente unificante della paura contro il pericolo gerarchicamente subito inferiore a quello della Le Pen: l’oltranzismo antieuropeo, antisemita e populista di Melenchon. Ma poi una via si troverà. In Francia la politica è ancora intrisa di spirito giacobino e gli accordi di programma saranno più complicati di quanto non lo siano in Italia dove la politica sin da Machiavelli ha una forte connotazione curiale, dovuta probabilmente alla presenza ingombrante della Chiesa e delle sue ambigue circonlocuzioni dalle quali sono nate espressioni come “le convergenze parallele” e personaggi ambigui come Andreotti. Ma in qualche modo un governo moderato ed europeista verrà fuori anche a Parigi.