Siamo soliti attribuire l’ascesa al potere dei neo-fascisti oggi al governo in Italia al diabolico stratagemma con cui Berlusconi trent’anni fa sdoganò i federalisti della Lega Nord e i fascisti di Alleanza Nazionale, erede del Movimento Sociale Italiano (MSI), creando un’alleanza raffazzonata che avrebbe poi, contro ogni pronostico, vinto le elezioni del 1994. La distinzione tra fascisti e neo-fascisti sopra evidenziata non è occasionale. Fascisti erano Junio Valerio Borghese, Giorgio Almirante e gli esponenti del MSI che il Ventennio lo avevano vissuto almeno in parte. Si possono eventualmente definire neo-fasciste le generazioni successive che il fascismo non lo hanno vissuto direttamente ma attraverso le testimonianze e le letture loro ammannite dai vecchi maestri dai quali hanno ereditato pari pari tutta la paccottiglia repubblichina e financo nazista. Appare quindi fuori luogo l’uso della definizione di post-fascista che tante volte ci viene proposta. Nel nostro linguaggio comune abbiamo conosciuto espressioni come post-industriale, post-moderno e simili. Il concetto alla base di questi neologismi era il superamento di queste realtà in quanto modificate da elementi nuovi anche se spesso deteriori: il post-fascismo non presenta questa caratteristica perché nulla è cambiato, né nei contenuti né nella simbologia del fascismo originario.
Fatta questa personale precisazione e tornando all’inizio del trentennio berlusconiano ricordiamo che da allora i neo-fascisti, molti dei quali specie nella Pianura padana avevano aderito al credo separatista teorizzato da Miglio e messo in pratica da Bossi (tra questi il ministro Giorgetti che mosse i primi passi nel Fronte della Gioventù, l’indimenticato Borghezio allevato nella destra più estrema e, più di recente, Claudio Durigon proveniente dall’Agro pontino), si sono lentamente ma costantemente moltiplicati.
L’interpretazione di questa espansione in chiave esclusivamente berlusconiana è però un po’miope e quindi riduttiva. Numerose sono infatti le testimonianze rivelatrici dell’ereditarietà del patrimonio ideologico fascista. Su la Repubblica del 30 giugno Matteo Pucciarelli racconta come l’inchiesta di Fanpage tra i giovani di Gioventù nazionale abbia un illustre precedente: “Bianco e nero”, un documentario del cantautore e regista Paolo Pietrangeli che ingannò i dirigenti missini e raccontò le nostalgie fasciste di quel partito. Sì, perché con la sua troupe fece loro credere di essere lì per un circuito televisivo francese e che quindi quelle parole in libertà non sarebbero state destinate al pubblico italiano. Altri tempi, senza web e senza social, dove era verosimile pensare che parlare senza alcun riserbo a un network straniero non avesse ripercussioni in patria. Nel documentario sono raccolte dichiarazioni degne di essere rispolverate. Junio Valerio Borghese, golpista ed ex comandante della X Mas, riesumata da Vannacci, diceva: “I comunisti sono nemici e se potessimo sterminarli io sarei molto contento”. Non scherzava neppure Almirante: “Sono d’accordo quando i miei scendono in piazza per battersi contro l’estrema sinistra; se non ci fossimo noi, non ci sarebbe nessuno a battersi, e la sinistra virtualmente sarebbe al potere”; aggiungendo poi per chi non lo avesse capito: “se i socialcomunisti andassero al potere per libere elezioni sarebbe prevedibile la mancanza di una libera democrazia ed io tenterei di difendermi con ogni mezzo”. Ma quella più strutturata è la posizione di Pino Rauti, padre di Isabella attuale sottosegretaria alla Difesa e più volte incorso nelle indagini giudiziarie legate allo stragismo di estrema destra: “Noi riprendiamo le teorie fondamentali del fascismo; quelle del nazismo sono un contributo di studio, di pensiero, di dottrina e cultura. Noi siamo contrari in linea di principio alla democrazia parlamentare, non crediamo nell’uguaglianza tra gli uomini, crediamo alla differenza”.
Che dire? Nei fatti una vera cesura tra il ventennio e la nuova Repubblica non c’è mai stata. Amnistie generose, tolleranza nelle manifestazioni pubbliche furono concesse nell’ottica della pacificazione, necessaria alla ripresa economica di un Paese da ricostruire.
Quei lettori di www.zonagrigia.it che negli anni ’60 del secolo scorso frequentavano la scuola media o la superiore ricorderanno che il programma finiva, se gli insegnanti erano scrupolosi, con la pace di Versailles che pose fine al primo conflitto mondiale. Una soglia temporale mai superata: dalle scuole elementari, passando per le medie e fino alle superiori la storia d’Italia si muoveva intorno ai due poli della civiltà greco-romana ed al Risorgimento. Una visione nettamente nazionalista, e quindi provinciale, nella quale facevano soltanto capolino eventi come il Sacro Romano Impero, la riforma protestante, la rivoluzione francese e l’impero napoleonico con specifico riferimento ai territori italiani. Mai parlato della Russia e della rivoluzione bolscevica. Anche quello che avrebbe dovuto essere un pilastro della formazione scolastica, l’educazione civica, veniva costantemente sacrificata, pur avendone acquistato il testo, per approfondire le meraviglie dell’Impero Romano e l’affermazione dell’Unità d’Italia. In questo scenario che si è protratto per decenni con qualche eccezione post-sessantottina soprattutto nei licei è totalmente mancata una messa in guardia dei giovani dall’estremismo di matrice fascista. D’altra parte, proprio Paolo Petrangeli, l’artefice del servizio ricordato da la Repubblica ci riferiva all’epoca, nel 1975, che nel 1960 provenivano ancora dall’amministrazione fascista 126 prefetti su 128; 241 viceprefetti su 241, 135 questori su 135 e 139 vicequestori su 139. E chissà quanti altri tra pubblici ufficiali e burocrati. L’ansia di pacificazione del Paese si protrasse per lungo tempo e fece comodo ai partiti di governo tenere in vita i fascisti come contraltare alla sinistra oltranzista istituendo la formula, ingiustamente equidistante, degli “opposti estremismi”.
Ma la destra estrema sta avanzando in tutto il mondo occidentale, cioè in quella parte del globo che ha visto la nascita della democrazia. Vale forse la pena ricordare quanto diceva Norberto Bobbio così come richiamato da Marco Revelli nell’intervista pubblicata sul Venerdì di Repubblica di qualche settimana fa a proposito del suo nuovo libro dal titolo “Questa sinistra inspiegabile a mia figlia”: “Come sosteneva Bobbio la distinzione tra sinistra e destra non si cancella perché è prepolitica e nasce dal carattere delle persone, dal loro comune sentire difronte allo scandalo delle diseguaglianze. È di sinistra chi soffre per quello scandalo e prova a rimediarvi, è di destra chi lo ignora considerandolo cosa normale. Da questo inferno si può uscire soltanto con un cambio di paradigma, con una diversa visione del mondo. Purtroppo globalizzazione e finanziarizzazione hanno sottratto alla politica le grandi decisioni. Per questo, sempre meno gente va a votare e non è detto che chi continua a farlo siano i migliori. La politica da sola non ne esce. Ha bisogno dell’utopia”.
Nell’attesa della improbabile nascita di nuove utopie dobbiamo limitarci ad immaginare il cambio di paradigma ma anche qui la prospettiva non ci risolleva: il cambio spetta evidentemente all’istruzione familiare e scolastica ma ci sembrano entrambe incapaci di affrontare l’arduo compito: la prima perché condizionata dai ritmi e dalle relazioni, anche tra genitori e figli, della vita attuale e la seconda perché occorrerebbe qualche generazione per elevare la scuola dal livello piuttosto basso oggi riscontrabile. Una prospettiva dunque di lungo ed incerto termine. Se poi si considerano il dilagare dell’istruzione privata a tutti i livelli e la frantumazione introdotta dall’autonomia differenziata, il nuovo paradigma invocato da Bobbio rischia di diventare una chimera.