Su la Repubblica del 17 giugno Ezio Mauro conclude un suo editoriale dal titolo “La nuova contesa tra destra e sinistra” segnalando come l’aggregazione della destra mondiale intorno a valori estremi stia rilanciando la sinistra “come alternativa, resistenza, difesa del sistema, sostegno alla repubblica parlamentare nata dalla ribellione alla dittatura, con la riconquista di una democrazia costituzionale dei diritti e delle istituzioni”. La definizione della rilanciata sinistra proposta da Ezio Mauro spiega come il collante più efficace per unificare partiti e sensibilità diverse sia la paura dell’avversario quando i suoi progetti e i suoi comportamenti vengono percepiti come pericolosi ed insostenibili.
Restringendo l’area geografica del fenomeno al nostro Paese, possiamo ritenere che qui da noi siamo ancora ben lontani dal vedere concluso il percorso di convergenza tra i partiti che si oppongono al Governo Meloni. Escludendo gli interessi e i capricci personali di alcuni dei leader della sinistra e dintorni, ideologie e progetti politici diversificati allontanano tuttora dalla percezione dei rischi che corrono le istituzioni democratiche, la coesione sociale, la convivenza civile e lo stesso benessere individuale. Se vogliamo cercare un’attenuante alla scarsa sensibilità di chi fatica ancora a confluire in una opposizione unitaria e possibilmente concorde, possiamo trovarla nel processo di lenta assuefazione alla politica della cosiddetta Seconda Repubblica inaugurata da un imprenditore già in precedenza chiacchierato per la sua spregiudicatezza. Il trentennio berlusconiano è stato, salvo qualche scossone, un crescente svilimento delle istituzioni, un costante attacco alla magistratura, un perenne stimolo, attraverso il più cinico populismo, al più disgregante egoismo individuale. Tutti fattori che hanno causato l’inarrestabile declino del Paese.
Se avessimo la possibilità di confrontare la società italiana del 1993 e quella di oggi attraverso delle sintetiche immagini fotografiche, ne coglieremmo subito l’evidente tracollo. Certo, trent’anni sono tanti e il confronto istantaneo proposto non tiene conto dei tanti cambiamenti, significativi e spesso decisivi, che sono sopravvenuti nel tempo e dunque non è dato sapere come li avrebbe affrontati una classe politica diversa da quella berlusconiana, di cui quella che ci governa oggi altro non è che la coda velenosa. Ciò che dobbiamo però ricordare sono tutti gli ostacoli che i pochi governi guidati dal centro-sinistra hanno incontrato. Gli errori che vengono già da qualche tempo imputati retroattivamente e sommariamente al centro-sinistra andrebbero relazionati al contesto politico in cui si ritiene siano stati commessi. Con ciò non si vuole assolvere la sinistra da ogni colpa, ma non si può tacere la costante, tuttora viva, che ha accompagnato il suo discusso cammino nel “trentennio”: nella sinistra, in tutta la sinistra, italiana e non, c’è sempre stato ampio spazio, forse troppo ampio (si pensi oggi alle primarie), per la discussione, il pluralismo delle opinioni ed anche delle impostazioni ideologiche, cose di fatto sempre assenti nel partito padronale di Berlusconi, come nella Lega, sia in versione Bossi che in versione Salvini. Paradossalmente proprio nella destra post-fascista si registrò il dissenso di Gianfranco Fini, ma è finito di fatto con la sua espulsione, rivelatrice di quanto la destra post-fascista sia incapace di rinunciare ai suoi nefasti disvalori. Da noi il dissenso si è concretizzato in scissioni alla vigilia delle elezioni, decisive ai fini della mancata vittoria, o in irresponsabili abbandoni della maggioranza al governo. Bertinotti, Rossi, Turigliatto furono protagonisti di quest’ultima forma di dissenso, mentre Renzi è allegramente passato dall’impedire la nascita di un’alleanza di governo PD – 5 Stelle dopo le elezioni del 2018 al provocare la caduta del Governo Conte 2: un cupio dissolvi del tutto assente nella destra, tenuta insieme saldamente dalla voglia di potere.
Nel trentennio berlusconiano la destra e la sinistra sono state dunque fedeli alle loro rispettive vocazioni, l’una autoritaria e monolitica, l’altra pluralista fino al suicidio. E così, mentre la destra governava da sola o ricattava i governi tecnici cui dava il suo necessario sostegno in Parlamento, la sinistra doveva confrontarsi con chi, al suo interno e nell’area culturale di riferimento, ignorando o minimizzando i pericoli della destra al potere, reclamava un programma di rinnovamento politico più incisivo. Dimenticavano, questi attenti custodi della coerenza politica, ma più spesso ideologica, che un serio programma di governo non avrebbe mai potuto prescindere dalla lotta concreta all’evasione, da una riforma della tassazione in senso realmente progressivo, dalla reintroduzione dell’imposta sulla casa e dall’introduzione di una patrimoniale: tutte parole d’ordine che l’elettorato, progressivamente ridotto a un gregge di consumatori acritici, incapaci di appoggiare un vero piano di risanamento perché attenti a proteggere la propria “tasca”, avrebbe puntualmente respinto perché ormai letteralmente drogato da trent’anni di propaganda populista. Rispetto alle promesse di un milione di nuovi posti di lavoro, di pensioni minime a mille euro o di prepensionamenti insostenibili, ma anche di un reddito di cittadinanza o di un bonus edilizia, alla sinistra non sarebbe rimasto che alzare sensibilmente la posta promettendo qualcosa in più, per dirla con Cetto La Qualunque: “Più pilu per tutti!”. E forse non sarebbe bastato perché le sue intenzioni sarebbero state immediatamente ridicolizzate da un sistema mediatico sbilanciato stabilmente verso destra fin dall’inizio del trentennio. Era quindi inevitabile che la sinistra affidasse le sue speranze elettorali alla semplice opposizione a tutto quanto l’agenda di governo di Berlusconi e dei suoi discendenti prevedeva o poneva in essere.
Con la Meloni al potere qualcosa è cambiato. La protervia con cui l’esecutivo governa, scavalcando il Parlamento ed ignorando i richiami di Mattarella, il tono di sfida che accompagna i proclami senza contraddittorio della Premier, l’attacco alla libertà di stampa, la mancata presa di distanze dalla componente nazifascista, la difesa ad oltranza di tutti gli esponenti della maggioranza soggetti ad indagini giudiziarie hanno finalmente scosso la sufficienza con cui molti esponenti della politica e della cultura di sinistra guardavano al Governo Meloni come ad uno dei tanti governi di centro-destra che lo hanno preceduto: una crescente preoccupazione si è diffusa prendendo giorno dopo giorno il livido colore della paura. Paura giustificata e giustificabile anche alla luce di semplici riflessioni storiche: la paura è stata la molla che ha sospinto in questi trent’anni la destra verso la vittoria: paura dei comunisti che non c’erano più, paura delle toghe rosse, paura degli immigrati, paura degli islamici, paura dei rapinatori, paura dell’Europa. D’altra parte fu il terrore fomentato contro i bolscevichi e poi contro gli ebrei a regalare all’umanità il nazifascismo. Bene, nel mondo conflittuale della sinistra, comincia a farsi strada la paura dell’autonomia differenziata, del premierato, di una riforma della giustizia che favorirà i colletti bianchi ed i politici, della costruzione “delinquenziale” del ponte sullo Stretto. Si intravede lo schema resistenziale individuato da Ezio Mauro e qualche risultato lo abbiamo visto nei giorni scorsi con le elezioni europee e soprattutto con le amministrative.