Quattro miliardi e mezzo di anni fa, dalla polvere cosmica delle stelle si formò un pianeta, il nostro pianeta, la Terra. In questo lunghissimo periodo di tempo, se paragonato alla brevità della vita umana, sono accadute tante, tantissime cose che la stragrande maggioranza dei suoi abitanti ignora del tutto, ed è un vero peccato perché è la storia più affascinante che sia mai stata narrata. Per molto di questo tempo lunghissimo la Terra è stata disabitata, non vi era alcuna forma di vita, fino a quando non apparvero le sue prime manifestazioni sotto l’aspetto di esseri viventi elementari: i batteri, più di due miliardi di anni fa.
Possiamo, quindi, affermare che il racconto biblico della creazione della vita sulla Terra, sotto forma di due esseri umani, quale culmine della creazione di tutte le altre specie viventi, così come lo troviamo nelle prime pagine della Genesi, non è altro che una pia invenzione, un mito, una leggenda senza alcuna base, alla quale però credono miliardi di persone e, fra queste, metà della popolazione degli Stati Uniti d’America, l’unico paese del mondo occidentale dove è stato possibile che, nello Stato della Louisiana, fosse promulgata una legge che, a partire dal 2025, obbliga tutte le scuole di ogni ordine e grado di affiggere in ogni aula grandi tabelle contenenti l’elencazione dei dieci comandamenti tratti rispettivamente dai capitoli 20 e 5 dell’Esodo e del Deuteronomio, i libri che compongono la Torah ebraica.
Nella narrazione biblica, l’uomo è presentato come il culmine della creazione di Dio che circa 6.000 anni or sono, affermano i creazionisti, lo pose a capo di tutto ciò che “si muoveva sulla superficie della terra” (Genesi 1:26) dei cui frutti avrebbe dovuto nutrirsi, così come tutte le altre specie viventi. In poche parole, Dio creò l’uomo e gli animali, compresi i carnivori, rigorosamente vegetariani. Ma qualche capitolo più avanti, l’anonimo narratore biblico, vissuto molto probabilmente secoli dopo la formulazione della prima narrazione, verso il sesto secolo a.E.V., ritenne opportuno essere più realista, dato che il mondo intorno a lui non era quello descritto in Genesi, e quindi fece promulgare da Dio una significativa modifica, e cioè “Che ogni animale che si muove ed è in vita vi serva di cibo”; stranamente l’ignoto autore non menziona il cambiamento di dieta per gli animali rispetto a Genesi 1:30. Da quel momento in avanti (come nella realtà non biblica era sempre stato) l’uomo poté uccidere senza alcuna restrizione tutti gli altri esseri viventi della Terra per gli usi che più gli erano utili.
La religione, in questo caso quella basata sulle antiche Scritture Ebraiche, è la principale responsabile dell’aver fatto credere all’uomo che era per diritto divino che egli aveva il diritto di esercitare il suo dominio su tutta la Terra, senza restrizione alcuna, e di questo diritto egli ne ha fatto un dogma, grazie al quale nel brevissimo periodo trascorso dalla sua apparizione sulla Terra (brevissimo in relazione alle ere geologiche) è stato in grado – e lo è sempre di più – di ridurre il rigoglioso paradiso edenico, che gli era stato donato, in un tizzone spento e senza vita. E vediamo il perché.
L’uomo è, in realtà l’ultimo arrivato; milioni di anni prima di lui e per centinaia di milioni di anni, l’intero pianeta era stato il dominio incontrastato di migliaia di diverse specie animali, di cui la più nota era quella dei dinosauri che dominarono il pianeta per 150 milioni di anni, rispetto agli appena duecentomila del dominio umano. In base al tempo della loro esistenza, paragonata con quella umana, si può affermare con certezza che sono stati loro, e non gli esseri umani, i dominatori incontrastati del nostro pianeta. Come dice Elizabeth Kolbert nel suo La sesta estinzione: “Se i primi cinque eventi, i cosiddetti «Big Five», hanno riguardato ere lontanissime e causato l’estinzione di massa di almeno il 75 per cento delle specie di volta in volta viventi sulla Terra, l’ultimo, ormai in corso, è la cosiddetta Sesta Estinzione, una trasformazione radicale dovuta alla comparsa circa duecentomila anni fa di una nuova specie animale. Una specie non particolarmente forte o rapida, ma piena di risorse, capace di modificare la composizione dell’atmosfera o di alterare gli equilibri chimici degli oceani. Noi, tuttavia, a differenza dei dinosauri ci distruggeremo da soli, trascinando con noi tutto il resto”. Sembra quindi del tutto appropriato il titolo che il grande genetista Luigi Luca Cavalli-Sforza ha dato ad un suo libro memorabile, nel quale definisce l’uomo “La specie prepotente”, e spiega il perché: “Possiamo parlare dell’uomo come della «specie prepotente», capace nel tempo di un adattamento tale da permettergli di regnare incontrastato sul pianeta; una predominanza sulle altre specie, sulla natura, e infine dell’uomo sull’uomo. Una prepotenza fatta talora di forza fisica, ma anche di intelligenza; e da una capacità evolutiva prettamente culturale che negli animali non è assente, ma è molto più limitata”. Possiamo ben dire, come asserisce Cavalli-Sforza, che i cosiddetti “fondamentalisti” sono rimasti fermi all’era di Aristotele, vissuto più di tre secoli prima dell’Era Volgare, il cui pensiero, saldamente ancorato alla teoria fissista, venne adottato dalla teologia medioevale con la conseguenza che fino al “secolo dei Lumi” fu impossibile mettere in discussione il pregiudizio per cui – secondo la lettera della descrizione biblica della Genesi – tutto sarebbe sorto per un fiat divino. Mentre la chiesa cattolica, seppur molto lentamente e in modo non indolore, ha finalmente accettato, nel 2008, la scienza evoluzionistica, negli Stati Uniti, come abbiamo già detto, il 60% della popolazione avversa con forza l’evoluzionismo e si professa creazionista, e ripone fede nella promessa del suo Creatore, secondo il quale: “Finché la terra durerà, semenza e raccolta, freddo e caldo, estate e inverno, giorno e notte non cesseranno mai” (Genesi 8:22).
Questo svolgersi dei cicli naturali, dovuti al moto dei pianeti intorno al sole, e fra di essi la nostra Terra, continua così fin dall’apparire della specie umana, che di conseguenza ne ha tratto la conclusione che “non cesseranno mai”. Ma non sembra che le cose stiano proprio così. Mentre le prime cinque estinzioni furono dovute a cause naturali, terremoti, gigantesche eruzioni, impatto di meteoriti e tant’altro, la sesta, quella attuale, si deve esclusivamente all’opera dell’uomo il quale, contrariamente al comando biblico di “averne cura” (della Terra), sta facendo tutto l’opposto. L’intera storia della specie umana, fin dal suo apparire, è una storia contraddittoria, dalla quale comunque emerge una caratteristica immutata nei secoli. L’uomo è un animale distruttivo e come dice Augias nel suo ultimo libro: “Gli esseri umani uccidono perché uccidere è nella loro natura” (La vita s’impara, Einaudi, 2024). Questa “specie prepotente” lo è nei confronti, oltre che dell’ambiente in cui vive, anche degli altri esseri umani con i quali lo condivide. Parlare dell’ambiente che muta è ormai un refrain quotidiano. Caldo estremo, siccità, assenza di piogge, inquinamento dell’atmosfera, sfruttamento irresponsabile delle risorse del pianeta, avvelenamento dei mari e dell’aria, estinzione di centinaia di specie dovute alla profonda modifica dell’ecosistema nel quale erano abituate a vivere, come, per esempio, il disboscamento del “polmone verde” della Terra, l’Amazzonia, per sfruttarne il legno pregiato dei suoi alberi, questo è il risultato non di alieni che vogliono distruggere la Terra, ma del Sapiens, di cui essa è la dimora. Rimanendo sul suolo americano, questa volta del nord, non possiamo non ricordare lo sterminio dei bisonti ad opera dei nuovi colonizzatori bianchi che nel giro di pochi anni portarono alla scomparsa dei circa 70 milioni di animali, dei quali rimangono oggi solo poche centinaia, condannando, nel contempo, alla morte per inedia i nativi, per i quali quell’animale era fonte di sopravvivenza.
La Terra, il luogo in cui viviamo, poteva sembrarci immensamente grande quando ancora passeggiavamo insieme ai nostri cugini Neanderthal, ma oggi non è più così. La Terra si è ristretta, e noi infieriamo su di essa depauperandola, senza renderci conto che ci diamo la zappa sui piedi. Molte delle riserve, che per secoli hanno aiutato l’uomo a resistere ai rigori del clima, non sono rinnovabili. Non lo sono il carbon fossile, il petrolio, i metalli come il rame e le terre rare, queste ultime in via del loro esaurimento perché richieste per la moderna industria dell’elettronica. Inoltre, ed è veramente paradossale il doverlo riconoscere, anche la politica è entrata in questo campo, facendone oggetto di scontro, ovvero che la sinistra è ambientalista e la destra è sul versante opposto. Ci sono cose, però, sulle quali tutto può essere consentito, tranne che farne oggetto di contesa e di scontro; e sono le cose che dovrebbero consentire la prosecuzione della vita sulla Terra, non solo la nostra, ma degli innumerevoli miliardi di creature che il prodigioso caleidoscopio dell’evoluzione biologica ha voluto donarci. La Terra è il “paradiso” della diversità, nel quale ogni cosa esistente ha il suo spazio e la sua funzione. L’opera della “specie prepotente” sta modificando, irreversibilmente, questo meraviglioso equilibrio. A volte, anzi molto spesso, quest’«opera» arreca danni difficilmente rimediabili. Essendo avanti negli anni, ricordo quando, negli anni ’70, in tutto il mondo echeggiò l’allarme per il cosiddetto “buco dell’ozono”, ovvero l’assottigliamento dello strato di ossigeno triatomico che protegge il nostro pianeta dalle radiazioni solari ultraviolette, le cui conseguenze sono disastrose; eppure oggi non se ne parla quasi più. Vuol dire questo che il problema è stato risolto? Certamente no, è semplicemente stato accantonato per fare spazio ad ulteriori emergenze. Eppure le conseguenze di questo assottigliamento, che ce ne occupiamo o meno, continuano ad esercitare il loro potere distruttivo, con il danneggiamento del DNA, una minore produzione agricola, l’impoverimento del fitoplancton oceanico, i tumori della pelle, l’indebolimento del sistema immunitario e così via. Ma la specie umana sembra in altre faccende affaccendata per occuparsi di questo e di altri problemi di simile o maggiore gravità, che mettono in serio pericolo la sopravvivenza delle forme di vita. Leggiamo dello scioglimento dei ghiacci artici e antartici, e passiamo oltre, senza renderci conto che quelle calotte hanno contribuito, e contribuiscono, a mantenere il clima come lo era quando questo pianeta, duecentomila anni fa, fu “consegnato” all’Homo Sapiens, che di “Sapiens” ha veramente poco, se si guardano le condizioni in cui versa il mondo.
La politica, dicevamo. Concordo ancora una volta con il giudizio di Corrado Augias, secondo il quale “Oggi vediamo in giro rappresentanti del popolo scadenti anche su elementari nozioni di cultura generale, di cultura approssimativa in termini proprio di nozioni generali” (vedi, e sembra proprio pertinente, il caso del nostro ministro della cultura, che probabilmente sarebbe bocciato anche agli esami delle scuole secondarie). E se Augias fa esplicito riferimento alla nostra classe politica, sono assolutamente certo che, con rare eccezioni, questo giudizio può applicarsi anche a molti altri paesi dell’orbe terracqueo. I risultati di questa ignoranza sono sotto gli occhi di tutti. Se si ritorna, dopo la crisi di Cuba del 1962, dalla quale sono trascorsi quasi settant’anni, alla minaccia nucleare, che un giorno sì e l’altro pure, il despota Putin sbandiera per intimorire i suoi avversari, ci rendiamo conto che il passato, a volte, è tristemente destinato a ritornare, in forme diverse, forse, ma con maggiore letalità. Parlando di danni irreversibili che a causa delle guerre sono stati arrecati al nostro habitat, non possiamo non ricordare, con orrore, la ventennale guerra del Vietnam, nel corso della quale l’esercito americano, per privare i suoi avversari vietcong della protezione loro accordata dalle fitte foreste di quel paese, fece largo uso di un micidiale defoliante, il cosiddetto “agente arancio” che, con quarantasette milioni di litri versati su tutto il paese, contribuì a contaminare due milioni di ettari di foreste, ad avvelenare gli ecosistemi vietnamiti e le persone che vi abitavano. Ancor oggi, a quarantaquattro anni dal termine di quel conflitto disumano, quel defoliante continua a far nascere bambini con gravi malformazioni e disabilità, facendone morire a migliaia insieme a uomini e donne, e manterrà la sua letalità a tempo indefinito.
Le immagini agghiaccianti che ogni giorno, da anni, ci vengono mostrate dai media su ciò che accade in Ucraina e a Gaza, sono l’evidente dimostrazione che l’uomo non impara dal suo passato, che la sua inclinazione a uccidere, a sterminare, a contaminare prosegue inalterata come agli inizi della nostra vita sulla Terra, con l’unico cambiamento rappresentato dal fatto che invece di pietre e bastoni oggi si impiegano strumenti estremamente più sofisticati per distruggere il pianeta e i suoi abitanti. Ecco perché, nel leggere quotidianamente ciò che riferiscono i mezzi di informazione sulle miserabili beghe politiche che infiammano il nostro e altri paesi, come la Francia, per esempio, dove il timore che Marine Le Pen possa conquistare il potere, come scrive Anais Ginori su la Repubblica, sta causando ansia, depressione e frustrazione, definite “demo-ansia” in molti che temono di risvegliarsi, molto presto, con un governo di destra-destra, la nostra reazione è di insofferenza verso questa politica da quattro soldi e risolviamo tutto con un’alzata di spalle. Noi italiani, per fortuna, non dobbiamo temere le stesse conseguenze, perché già da due anni abbiamo un governo di estrema destra e, com’è nostra secolare tradizione, lo abbiamo accettato come se fosse una cosa normale.
Ritornando, in chiusura, al tema principale di questo scritto, cioè la “sesta estinzione”, desideriamo citare un antropologo di fama internazionale, Richard Leakey, secondo il quale “l’Homo sapiens è sul punto di causare una fondamentale crisi biologica, un’estinzione di massa, la sesta negli ultimi cinquecento milioni di anni. E anche noi, Homo sapiens, potremmo essere tra i morti viventi”. Un cartello nella Sala della biodiversità del Museo Americano di Storia Naturale, riporta una citazione dell’ecologo dell’Università di Stanford Paul Ehrlich: Portando all’estinzione le altre specie, il genere umano sta recidendo il ramo su cui esso stesso si posa.
Elizabeth Kolbert, in chiusura del suo lavoro, che mi sento di raccomandare per la lettura, così conclude: “Nessun’altra creatura si è mai trovata a gestire nulla di simile, e sarà, purtroppo, il lascito più duraturo della nostra specie. La Sesta Estinzione continuerà a determinare il corso della vita sul pianeta molto dopo che ciò che l’uomo ha scritto e dipinto e costruito sarà ridotto in polvere, quando magari i ratti giganti avranno – oppure no – ereditato il pianeta”.