5 maggio 1938
Napoli, Piazza Municipio n°64
Birreria Lowenbrau, ore 22:00
La sala del locale, solitamente molto affollata per la bella stagione, questa sera straripa di clienti. La maggioranza indossa una divisa nera orbace o bruna fregiata di aquile rampanti. I miliziani cantano stupide marcette militari e ridono, bevono, si danno pacche sulle spalle. Il vecchio pianista del locale, coi suoi capelli bianchi e lo smoking liso, non riesce a sovrastare con la musica la voce esaltata dei camerati, nemmeno ci prova, in verità, per evitare guai: «Questi so’ maneschi! Quando sono in gruppo poi so’ ancora chiû fetenti… Ci mettono poco a sfilare il manganello e a spaccare teste».
I pochi cittadini che sono riusciti a trovare posto se ne restano quieti ai loro tavoli, dando il meno possibile nell’occhio. Mescolato a questi esaltati c’è sempre qualche agente dell’OVRA, la polizia segreta fascista, pronta a farti sparire senza nemmeno pensarci due volte. Del resto oggi è stata una giornata memorabile: Mussolini e il Führer hanno sfilato in città tra ali di folla con il braccio teso nel tipico saluto militare. Lungo tutto il percorso, dalla Ferrovia a Via Caracciolo, tutti gli edifici sono stati tappezzati di svastiche e fasci littori mentre i cannoni sparavano salve continue di saluto. Alla fine della parata la macchina nera scoperta con a bordo i due dittatori ha sfilato sotto uno scenografico arco di trionfo di oltre trenta metri, posto sulla promenade di via Acton, prima di scendere verso il nuovo glorioso porto dell’impero italiano. Nello specchio di mare antistante è stata messa in scena un’esercitazione militare con tanto di incrociatori, sottomarini e motosiluranti che ha sbalordito un entusiasta Hitler.
Quindi bisogna capirli questi miliziani: ore e ore di servizio in piedi sotto al sole gli hanno dato il diritto di svagarsi… Come di prammatica in modo virile, prima ubriacarsi e poi tutti al casino, per mostrare la potenza del maschio italico agli alleati. E, mentre il Führer dorme tranquillo a Palazzo Reale dopo aver assistito alla rappresentazione dell’Aida al San Carlo, magari pure i camerati possono costringere quello stupido pianista a suonare qualcosa di meno melenso di Schubert …
In tre si avvicino al vecchio e macilento musicista, gli sciolgono il cravattino alla francese, gli scompigliano i capelli canuti, gli disegnano con un pezzo di carbone basette e baffoni da “vero uomo”, offendendolo per quella eleganza e quelle mani femminee.
«Invertito, pederasta, la sai suonare Faccetta nera?»
Un ceffone improvviso colpisce sul collo il vecchio che risponde timidamente: «Veramente no…»
Un cazzotto sulla spalla: «No cosa?»
«No, camerata.»
Gli avventori civili siedono fingendo di non guardare, qualcuno lascia il locale, inorridito ma senza protestare. Da un tavolo più discosto un ragazzo e una ragazza parlano fittamente ma non sono indifferenti alle pene del vecchio musicista insultato e malmenato che adesso lascia il piano a quei feroci. Il ragazzo gli va incontro, gli porge un biglietto da 100 lire e lo fa accomodare al suo tavolo rinfrancandolo con una generosa dose di cognac. Il trio di camerati attacca:
«Faccetta nera, bella abissina
Aspetta e spera che già l’ora si avvicina…»
Battiti di mani e voci sguaiate riempiono la sala facendo da accompagnamento alla canzonetta stupida e razzista.
«Noi marceremo insieme a te
E sfileremo avanti al Duce e avanti al Re!»
Il parossismo arriva al limite nel finale, i tre musicisti improvvisati ritornano alla loro compagnia acclamati come eroi dopo una battaglia.
Nel caos riempito dalle urla e dagli strepiti, il ragazzo si alza dal suo tavolo avviandosi verso il fondo della sala. Non è poi tanto giovane a guardarlo, è estremamente magro e la sua figura emana eleganza e carisma. Nemmeno notato dai fascisti si accomoda al piano e inizia a suonare:
«Allons enfants de la Patrie
Le jour de gloire est arrivé! …»
La Marsigliese risuona nel locale ma nessuno si accoda al suo canto di libertà temendo i manganelli. L’uomo al pianoforte continua imperterrito:
«Contre nous de la tyrannie,
L’étendard sanglant est levé»
Quando l’uomo magro finisce di cantare, il silenzio cala come un sudario. Lui si alza, con una dignità che sembra innaturale per il suo aspetto fragile, e guarda dritto negli occhi i nazifascisti che hanno scacciato il vecchio musicista.
Intanto, un uomo distinto, seduto tra gli avventori, si alza avvicinandosi ai camerati, una massa ignorante che non ha compreso la natura dell’affronto. L’uomo mostra un distintivo nascosto sotto il bavero della giacca e ordina di fermare quel pazzo. Prima che gli energumeni arrivino, l’uomo fa in tempo a dire con voce ferma:
«Per chi non la conoscesse, questa canzone è riconosciuta, universalmente, come l’inno della libertà».
L’uomo si asciuga una lacrima di rabbia e continua:
«C’è ancora la libertà in questa città, in questo Paese? Rispondete!»
La tensione è palpabile ma nessuno osa fiatare, allora l’uomo riprende a parlare:
«Se non la conoscete, è perché da quando c’è Mussolini in Italia, non conosciamo più la libertà».
La rabbia dei camerati esplode come una tempesta; lo trascinano via, lo riempiono di calci senza pietà. Le sue urla echeggiano nella birreria:
«Solo calci sapete dare perché siete tutti ciucci!»
I cinefili ricorderanno sicuramente il film Casablanca, diretto da Micheal Curtis nel 1942 e magistralmente interpretato da Humphrey Bogart e Ingrid Bergman. Eppure questo racconto non è una rivisitazione, in salsa partenopea, della scena ambientata al Rick’s Café dove il protagonista fa suonare la Marsigliese in spregio alla presenza di alti ufficiali della Gestapo. Questo episodio è realmente accaduto, dove e come raccontato. Il protagonista è nientemeno che lo scienziato napoletano Renato Cacciopoli. Il geniale matematico antifascista pagò questo gesto di coraggio a caro prezzo. Fu incarcerato e riuscì ad evitare il confino solo grazie all’intervento della famiglia che lo fece internare in manicomio dichiarandolo pazzo. Durante il lungo periodo d’internamento iniziarono a manifestarsi, con maggiore frequenza, quelle turbe psichiatriche che caratterizzeranno l’ultimo periodo della sua vita.
Forse proprio questo episodio segnò l’inizio del viaggio al termine della notte per Renato Caccioppoli. Come nel romanzo di Céline, il viaggio di Renato fu un percorso di disillusione e sconfitta. Negli anni seguenti, Caccioppoli perse progressivamente tutto ciò che aveva dato senso alla sua esistenza. La sua fede nel Partito Comunista si sgretolò dopo l’invasione dell’Ungheria. L’amore della sua vita lo lasciò per un altro uomo e la sua passione per la matematica svanì quando smise di pubblicare lavori.
Ogni disillusione lo avvicinò sempre più al buio che lo inghiottì completamente nel 1959, quando decise di suicidarsi sparandosi un colpo di rivoltella alla nuca.
Quel gesto nella birreria napoletana, quel coraggioso atto di ribellione, fu l’inizio di un viaggio che lo avrebbe condotto al termine della sua personale notte, una notte fatta di solitudine, tradimenti e disperazione. E così, come un personaggio tragico da romanzo, Renato Caccioppoli si spense, lasciando dietro di sé una scia di luce rifulgente, la memoria di un coraggioso omaggio alla libertà che, anche se breve, resta indimenticabile.
Proprio come Bardamu, Caccioppoli è un personaggio che, attraverso il coraggio e l’intelligenza, cerca di navigare in un mondo caotico e spesso ostile, ma si trova inevitabilmente segnato dalle sue esperienze traumatiche.
Il viaggio di Caccioppoli, almeno come narrato nel racconto, diventa una metafora della sua lotta interiore, un cammino costellato da momenti di grande luce intellettuale e profondi abissi di disperazione personale.
Entrambi i personaggi, sebbene in contesti diversi, affrontano la crudele ironia di un mondo che non solo ignora ma spesso schiaccia gli ideali di libertà e umanità che cercano di sostenere … Caro Antonio, chapeau!
Grazie mille Raffaele, speriamo che le persone aprano gli occhi… Mala tempora currunt.