La persistenza della memoria

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Museo di Pietrarsa, Napoli (foto di Antonio Nacarlo)

La Festa dei lavoratori è celebrata il 1º maggio di ogni anno in molti paesi del mondo, per ricordare tutte le lotte per i diritti dei lavoratori. Un’occasione per fare il punto sull’universo dei prestatori d’opera, ed un giorno di festa per omaggiare le forze produttive di ogni paese. La data ricorda un tragico evento avvenuto a Chicago nel 1886. Durante un raduno di lavoratori che chiedevano la riduzione delle ore di lavoro da sedici a otto, le forze dell’ordine fecero fuoco sui manifestanti. Due operai persero la vita e tanti altri furono feriti per reclamare un loro sacrosanto diritto.

Ben vent’anni prima, il 6 agosto 1863, un episodio simile era avvenuto nella Napoli post unitaria ma, come vedremo, il tragico episodio fu insabbiato e quasi cancellato dalla storia. Questi i fatti. Il 3 ottobre 1839 fu inaugurata la prima strada ferrata d’Italia che congiungeva Napoli a Portici. Una linea ferroviaria di 7.411 metri che in 11 minuti collegava la capitale del regno borbonico al porto del Granatello, prossimo al sito reale porticese. Quello che poteva sembrare un divertissement borbonico si trasformò in un’impresa per rendere autonomo il regno duo-siciliano dalla supremazia tecnica di Francia e Inghilterra, veri colossi nell’industria siderurgica e ferroviaria. Nel 1840, Ferdinando II diede avvio alla costruzione del Reale Opificio Meccanico, Pirotecnico e per le Locomotive a Pietrarsa, località rivierasca ad est di Napoli. Obiettivo della fabbrica: costruire, riparare e manutenere le locomotive e i vagoni per le nuove ferrovie. In appena quindici anni il nucleo industriale napoletano divenne il più grande stabilimento industriale della penisola, precedendo di 44 anni la fondazione della Breda e di 57 quella della Fiat. La struttura divenne un modello di riferimento in Europa e fu visitata addirittura da papa Pio IX nel 1849.

Particolare del Museo Pietrarsa (foto di Antonio Nacarlo)

In visita a Napoli, lo zar di Russia Nicola I fece prendere l’opificio a modello per la costruzione di un grande stabilimento ferroviario in Russia, sull’isola di Kronstadt. Al momento dell’annessione del Regno delle due Sicilie da parte delle forze garibaldine l’opificio di Pietrarsa contava ben 1.050 operai tutti ben pagati e con un orario di lavoro di otto ore al giorno. Data la sua natura di stabilimento sotto il controllo statale, Pietrarsa dipendeva completamente dalle commesse reali per la propria attività.

Il dissesto finanziario del Regno di Sardegna, causato dalle ingenti spese militari poste in essere per l’unificazione del Paese, richiese decisioni impopolari per il risanamento dell’erario. Lo smantellamento dell’apparato industriale e produttivo meridionale ed il trasferimento alle industrie settentrionali delle produzioni e delle commesse statali fu l’effetto più eclatante. Le commesse produttive dirottate altrove giustificarono il piano di decrescita del sito e la conseguente riduzione del personale. In due anni il numero di unità produttive della fabbrica venne dimezzato e le paghe diminuite del 30%. Quasi in bancarotta l’opificio di Pietrarsa fu ceduto ad un faccendiere milanese vicino alla casa regnante, tale Jacopo Bozzo. La nuova direzione aumentò la giornata lavorativa da 8 a 11 ore riducendo ulteriormente la paga oraria a 30 grana (passando dagli 85 grana a giornata del periodo fiorente). Inoltre venne istituito il sistema di lavorazione a cottimo valutato da una sorta di sicurezza armata interna creata allo scopo. Gli operai allo stremo decisero di incrociare le braccia e radunarsi nel piazzale dello stabilimento per iniziare una contrattazione con la nuova proprietà. Jacopo Bozzo non solo rifiutò il confronto ma fece avvertire la vicina tenenza di Portici dichiarando che fosse in atto un’adunanza sediziosa di lealisti borbonici pronti alla ribellione.

Altro particolare del Museo di Pietrarsa (foto di Antonio Nacarlo)

Il questore Nicola Amore, senza accertarsi della fondatezza delle informazioni, inviò sul posto i bersaglieri del 33° reggimento. Centinaia di armati fecero fuoco sugli inermi operai senza indugiare. Dopo la prima salva innestarono le baionette e caricarono gli astanti. Sull’acciottolato della fabbrica persero la vita quattro persone ed innumerevoli furono i feriti. Nell’immediatezza della strage, la Società Operaia Napoletana promosse una commissione d’indagine capitanata dall’onorevole Enrico Pessina per accertare i fatti e deliberare degli aiuti economici alle famiglie degli operai uccisi. Il bilancio certo della strage non fu mai reso noto. Unico dato inconfutabile fu la mancanza di 261 persone alla riapertura dell’Opificio dopo i tragici fatti. Gli ufficiali denunciati per i loro eccessi in servizio furono tutti assolti e il questore Nicola Amore ebbe anche una felice carriera politica; fu sindaco di Napoli e senatore del regno nella XV legislatura.

I martiri del lavoro di Pietrarsa furono dimenticati nelle pieghe della storia. Solo nei primi anni 2000 ricercatori napoletani hanno riportato alla luce i fatti del 1863. Il comune di San Giorgio a Cremano ha cambiato il toponimo di Via Ferrovia, che conduce al sito, in Via Martiri di Pietrarsa in memoria degli operai caduti sotto il fuoco sabaudo in difesa del lavoro. Il 1° maggio 2017, il quartiere napoletano di San Giovanni ha ridenominato “Piazza Martiri di Pietrarsa” la precedente piazza Ferrovia. L’opificio di Pietrarsa oggi è divenuto un museo che ospita decine di locomotive, carrozze, arredi di stazioni, plastici e documenti progettuali e d’epoca, tra cui la mitica locomotiva Bayard e i treni reali. 36mila metri quadrati di estensione, di cui 14.000 coperti, un vasto piazzale che affaccia sul mare e le splendide architetture di archeologia industriale fanno del luogo una location mozzafiato. Per la ricchezza dei materiali conservati Pietrarsa è considerato uno dei più importanti musei ferroviari d’Europa.

NOTA: “La persistenza della memoria”, titolo scelto per questo articolo, si ispira al famoso quadro surrealista di Salvador Dalì e riflette sulle trasformazioni di una grande fabbrica ferroviaria diventata museo. Attraverso un mini reportage fotografico, ho giocato sul dato surreale degli immensi spazi svuotati dal significato del lavoro, trasformati in una terrazza sul mare. Questo richiama, per il sottoscritto, l’idea che il Lavoro ha pari dignità della Bellezza, purché questa sia fonte di sostentamento e non mera espressione estetica. In questo caso in particolare, la trasformazione della fabbrica in museo non solo conserva la memoria del suo passato industriale, ma trasmette anche un nuovo significato: la bellezza e la dignità del lavoro persistono, diventando fonte di ispirazione e riflessione per i visitatori, oltre che di sostentamento per la comunità locale.

2 commenti su “La persistenza della memoria”

  1. Raffaele Catania

    L’articolo non solo informa ma invita alla riflessione su temi di rilevanza sociale e culturale, dimostrando come spazi un tempo industriali possano essere reinventati in modi che rispettano e rinvigoriscono la loro eredità storica. Complimenti!

    1. Antonio Nacarlo

      Grazie Raffaele il tuo commento, puntuale e competente, colpisce sempre il senso del discorso: ridare vita alle opere del passato si, renderle fruibili certamente, purché rinascano vive e produttive nel tessuto urbanistico delle città. Altrimenti diventa solo occasione per sprecare denaro pubblico (vedi Albergo dei poveri).

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